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18 anni di Libertà Eguale/3 Dopo la ‘svolta’: la Quercia, l’Ulivo e il nuovo pilastro riformista

Claudio Petruccioli martedì 28 Novembre 2017
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L’origine più lontana di “Libertàeguale” va ricercata – io credo – negli anni della “svolta” che concluse la storia del Pci. A voler essere pignoli, si potrebbe risalire ancora più indietro; ma, in questo caso, si finirebbe quasi inevitabilmente col ripercorrere biografie personali, forse non prive di significato, ma certo non tali da poter essere assunte come riferimento esauriente.

Non mi riferisco tanto al momento iniziale della “svolta”, quando si scelse fra il SI e il NO: se predisporci ad aprire una fase nuova per la sinistra o tener ferma una sostanziale continuità con il Pci. Quelli che, poi, si sono ritrovati in “Libertàeguale” provenendo dal Pci – parlo, per ora solo di questi – erano, ovviamente, dalla parte del SI. Vado invece subito alla fine di quel periodo, concluso dopo cinque anni di turbolenze, turbamenti e lacerazioni con la sconfitta nelle elezioni del 1994, le prime post-proporzionali.

A quella sconfitta seguono le dimissioni di Occhetto da segretario del Pds. Due erano le esigenze avvertite, di cui tener conto: uscire dalla fase più frenetica, perfino incontrollabile, del cambiamento, per costruire una nuova e ordinata “stabilità”; non interrompere, anzi rilanciare, rendere più evidente e incisivo l’ambizioso processo di innovazione progettato, immaginato, avviato ma evidentemente incompiuto. Non si doveva sacrificare l’una o l’altra di queste due esigenze; si trattava, piuttosto, di definire una priorità nell’orientamento e nell’azione del partito.

 

Veltroni e la priorità del rinnovamento

Le due candidature che si confrontarono avevano questo significato: D’Alema poneva l’accento sulla prima esigenza e la privilegiava, Veltroni sulla seconda. Fu una scelta non scontata, una elezione vera; forse la sola – a sinistra – prima di quella da cui uscirà, l’8 dicembre 2013, il nuovo segretario del PD. Infatti, già allora si aprì una disputa sulle procedure per eleggere il segretario; ci fu, già allora, qualcuno – particolarmente sconsiderato, ma non farò nomi – che pensava possibile, anzi chiedeva che la scelta fosse affidata ad un pronunciamento universale degli iscritti. Come misura di ripiego, ebbe luogo una “consultazione” di quelli che Gramsci definiva “ufficiali di collegamento”: i dirigenti locali fino ai segretari di sezione. Si espressero in quindicimila, con un favore prevalente per Veltroni. Poi, come previsto dallo statuto, si procedette alla elezione in Consiglio nazionale; e il nuovo segretario fu D’Alema. Ricordo l’episodio perché – indizio anch’esso significativo  – quelli che si ritroveranno poi in “libertàeguale” sostennero tutti –così io ricordo – Veltroni; cioè la priorità del rinnovamento, comunemente associata alla sua candidatura.

Dopo l’insediamento di Berlusconi a Palazzo Chigi e il cambio al vertice del Pds, precipitarono subito sul tavolo impegnative questioni politiche. Prima di tutto si doveva dare un preciso segno politico e istituzionale al modo in cui esercitare l’opposizione. La tendenza spontanea prevalente era di chiamare a raccolta “tutti i democratici” per fronteggiare l’inaudita vittoria di una inedita destra, senza radici nella storia e nella esperienza della democrazia repubblicana e costituzionale che gli italiani conoscevano da mezzo secolo: con quei partiti, quelle procedure, quelle relazioni che associavano e consociavano. Insomma, una risposta tipo CLN, per chiudere al più presto l’infausta parentesi e tornare alla “normalità”.

 

Il riformismo istituzionale e la logica dell’alternanza democratica

Per la prima volta, però, in Italia c’era stata una scelta e una decisione diretta degli elettori  in una competizione aperta e democratica per il governo. Era, questo, uno degli obiettivi del nostro (e non solo nostro) riformismo istituzionale, che avevamo perseguito e raggiunto attraverso ben due referendum, nel 1991 e nel 1993. Senza nasconderci le difficoltà e i pericoli, non volevamo, dunque, che si disperdesse la sostanza di questa innovazione; spingevamo, anzi, perché si provvedesse agli aggiornamenti costituzionali richiesti dal nuovo sistema elettorale, eravamo convinti che ci si dovesse calare nel cambiamento avviato per portarlo a compimento.

Anche il modo di fare opposizione andava adeguato. Per tutto il precedente periodo repubblicano, l’opposizione (tale per definizione, visto che l’alternanza risultava impraticabile e veniva, in fin dei conti, esclusa da tutti) si proponeva essenzialmente di condizionare il più possibile il governo e di bloccarne le iniziative considerate peggiori. Nelle nuove condizioni, opporsi voleva dire innanzitutto preparare le condizioni per una alternativa di governo, per vincere la successiva sfida elettorale.

Noi (avete ormai capito chi intendo con questo “noi”) eravamo decisamente su questa seconda posizione. Per cui, quando a pochi mesi dall’insediamento, Berlusconi uscì da Palazzo Chigi per la rottura con la Lega e fu sostituito da Lamberto Dini alla guida di un governo tecnico (il cosiddetto “ribaltone”) insistemmo perché il tempo di quel gabinetto fosse utilizzato per perfezionare la riforma elettoral-istituzionale, in modo da tornare rapidamente al voto, e i cittadini potessero fare in libertà e sicurezza la loro scelta. Volevamo – ecco la sostanza – che i problemi venissero risolti avanzando sulla via del riformismo, non indietreggiando come, a nostro avviso, facevano quanti si ispiravano al modello “ciellenistico”.

 

La riforma delle pensioni: dalla politics alle policies

Non ottenemmo, su questo terreno, alcun risultato; ma il governo Dini in una riforma si impegnò e ci impegnò: quella delle pensioni. Fu introdotto un cambiamento non solo necessario per le finanze, ma giusto: si passò dal metodo retributivo, interpretato per di più in modo via via più lassista e irresponsabile, al metodo contributivo. Noi eravamo (come del resto lo era ufficialmente il Pds, con tutte le eccezioni e i maldipancia che si possono immaginare) favorevoli al nuovo sistema; e auspicavamo che alla affermazione del principio seguisse una applicazione rigorosa e rapida. Fu Enrico Morando a condurre una sacrosanta battaglia affinché il criterio contributivo avesse subito una applicazione universale “pro quota”; all’atto della approvazione della legge, cioè, si sarebbe dovuta tirare una linea, prima della quale la pensione veniva calcolata per tutti su base retributiva, affidando gli anni successivi al meccanismo contributivo; ovviamente per tutti.

Le cose, come sappiamo, andarono diversamente, fra eccezioni scaglionamenti e “scaloni”; ma l’esperienza che, grazie ad Enrico, vivemmo da vicino, allargò il nostro orizzonte riformistico. Capimmo che  non solo le riforme istituzionali e costituzionali, sulle quali fin lì ci eravamo concentrati, ma tutte le riforme sono tremendamente difficili, se ci si mette mano sul serio. Sono però un banco di prova che non si può evitare se si persegue il rinnovamento della politica; per dirla in altro modo, il riformismo non può limitarsi alla politics, deve affrontare anche le ardue scelte che riguardano le policies. Sarà, questa, una delle acquisizioni centrali per Libertàeguale. Ma non ci siamo ancora arrivati, mancano quattro anni.

 

Il rinnovamento incompiuto

Alla vigilia delle elezioni del 1996, il filo rosso che ci guidava era chiaro e preciso: il rinnovamento iniziato con la “svolta” non era compiuto, né qualitativamente né quantitativamente; né per le idee, ancora troppo condizionate dalle abitudini, né per le forze, ancora troppo poche. Avvertivamo che l’Italia era entrata in una fase critica; per uscirne in modo stabile e definitivo doveva svilupparsi un processo costituente che avrebbe dovuto definire istituzioni e soggetti politici tali da consentire ai cittadini di scegliere col voto maggioranze e governi, conoscendo nel modo più preciso e trasparente le opzioni programmatiche e le leadership in campo.

In quel periodo ci incontravamo in modo molto informale, quasi spontaneo e “a geometria variabile”; nel senso che ci si convocava a voce, quando se ne sentiva la necessità o se ne presentava l’occasione, e c’era chi poteva. Si fissava un pomeriggio o una sera, in qualche luogo; non era difficile trovarne e, in ultima istanza, si andava in qualche trattoria che ci conosceva. Una delle preferite, con una saletta appartata, era “Lillo al piedone”, in via del Pie’ di marmo, fra la Minerva e il Collegio romano; oggi negli stessi locali c’è un raffinato ristorante cinese. Ricordo che ci trovammo lì la sera del 2 febbraio 1995 il giorno in cui Prodi, candidato da Andreatta, dichiarò la sua disponibilità ad assumere la leadership del “centrosinistra”, che poi si chiamò “Ulivo”.

La prima uscita pubblica la facemmo il 18 e 19 luglio 1996, all’ex hotel Bologna acquisito dal Senato per gli uffici dei senatori[1]. Era alle porte, finalmente, il congresso; dico finalmente perché era stato annunciato a scadenza più o meno immediata da ambedue i candidati alla segreteria nel 1994. Però, un po’ le vicende politiche, un po’ l’orientamento di D’Alema che cercava – comprensibilmente – di consolidarsi prima della prova congressuale, fecero slittare l’appuntamento di due anni e più. A luglio del 1995 c’era stato, per la verità, un “congresso” ma – come si disse e secondo definizione statutaria -“tematico”. Si trattò, in realtà, di una assemblea con intenti essenzialmente propagandistici e diplomatici, caratterizzata dal tentativo di migliorare i rapporti con un Berlusconi estromesso sei mesi prima dal governo. L’intervento di Berlusconi, invitato d’onore, fu infatti il clou sia nella grande sala del Palafiera di Roma, sia nell’attenzione degli organi di stampa e dell’opinione pubblica.

 

La preparazione del Congresso del Pds

La preparazione concreta del congresso si avviò dopo le elezioni del 1996 la vittoria dell’Ulivo e l’insediamento del governo Prodi. Il temporeggiamento di D’Alema sembrava aver raggiunto il suo obiettivo: le assise nazionali del Pds[2] si sarebbero svolte sull’onda di un successo; e quale successo! Ma se due anni prima c’erano i problemi collegati alla sconfitta, anche la vittoria accendeva nuovi interrogativi e imponeva scelte forse ancor più incalzanti e impegnative; in politica – come nella vita – i momenti assolutamente “tranquilli” sono molto vagheggiati, ma non esistono.

Materia da dissodare ce n’era, e molta; al consiglio nazionale del 4 ottobre, dando seguito a quanto avevamo delineato all’ex hotel Bologna e approfondito durante le ferie estive, presentammo un “contributo per il congresso” in 23 punti; era abbastanza ampio ed esauriente tanto da poter ambire, nel linguaggio dell’epoca, alla qualifica di “tesi”. Era firmato da 23 persone, variamente coinvolte nella sua messa a punto[3].

Quando D’Alema mise a punto il suo documento congressuale, dovemmo decidere se contrapporre il nostro come piattaforma alternativa o estrarne degli emendamenti. Per prudenza forse eccessiva, e anche condizionati da un clima diffuso (e alimentato) nel partito, clima diffidente e ostile verso qualunque atto che potesse essere sospettato di attacco alla leadership, scegliemmo la strada degli emendamenti. Presentammo, comunque, 7 testi che affrontavano tutte le questioni cruciali (dall’Ulivo, alle riforme costituzionali, alle leggi elettorali, al partito, ai rapporti con gli altri partiti a cominciare da Rifondazione) e proponevano in realtà, con assoluta chiarezza, una linea diversa da quella presente nel documento del segretario. Ai firmatari dell’iniziale “contributo” si aggiunsero altri 15 consiglieri nazionali che sottoscrissero anch’essi tutti gli emendamenti[4].

Da un punto di vista sostanziale, dunque, cambiava poco o niente; l’insieme degli emendamenti comprendeva tutti i punti qualificanti e dirimenti del “contributo” di ottobre. Grande era, invece, la differenza dal punto di vista formale. Il regolamento congressuale prevedeva, infatti, che il segretario avrebbe potuto far propri gli emendamenti che volesse, a suo insindacabile giudizio. D’Alema usò questa facoltà con tutta la spregiudicatezza di cui è capace, con il solo obbiettivo di togliere di mezzo i temi più imbarazzanti e che – sottoposti alla discussione e al voto degli iscritti – avrebbero potuto fornire indicazioni politicamente significative e a lui non gradite.

 

Un emendamento ‘imbarazzante’

Dopo la presentazione con il corredo delle firme iniziali, inoltre, gli emendamenti erano aperti alla adesione da parte di altri consiglieri nazionali. Il più importante e “imbarazzante” dei nostri emendamenti era il primo, dedicato a l’Ulivo; a differenza di altri, si proponeva non di integrare (cioè chiarire, specificare) il testo del segretario, ma di sostituire integralmente il capitolo di quel testo in cui si affrontavano i rapporti con l’Ulivo. Non era un caso, visto che il nostro era un punto di vista diverso e alternativo rispetto a quello sostenuto da D’Alema, spesso in polemica esplicita con noi, che non avevamo certo aspettato il congresso per dar voce alle nostre posizioni.

L’attenzione su questo emendamento e sull’argomento che affrontava crebbe in modo esponenziale, anche da parte degli organi di informazione, quando aggiunsero la loro firma dirigenti storici e di primo piano: Achille Occhetto, Fabio Mussi presidente del gruppo parlamentare della Camera e, soprattutto, Walter Veltroni, vicepresidente del consiglio in carica (mi comunicò la sua intenzione di firmare nel corso di un colloquio a Palazzo Chigi). Si trattava di un testo di non più di tre cartelle; ma se quell’emendamento fosse andato al voto, sia per il contenuto che per le firme, avrebbe avuto più o meno lo stesso significato di un confronto su tesi generali distinte e contrapposte.

D’Alema non ci pensò un minuto: fece proprio l’emendamento ed evitò, così, una discussione e una conta che non voleva. Non manifestò il minimo imbarazzo per il fatto che il testo assunto fosse di contenuto molto diverso, per non dire opposto, rispetto a quello da lui inizialmente presentato; né sentì il bisogno di motivare la propria decisione se non dicendo che fra la sua proposta e l’emendamento accolto non c’erano differenze di sostanza.

Ma anch’egli era consapevole che le cose non stavano così, che di sostanza ce n’era, e molta; lo dimostra il fatto che appena due settimane dopo la chiusura del congresso, sentì il bisogno, durante l’incontro di Gargonza, di chiarire in modo perfino brutale che i protagonisti della politica erano esclusivamente i partiti, e che l’Ulivo non era altro che un involucro di cui essi avevano deciso di servirsi.

 

Nasce “La Quercia e l’Ulivo”

Fino a quel momento ci eravamo affidati a periodici incontri informali e solo in vista del congresso avevamo assunto iniziative pubbliche, anch’esse peraltro finalizzate al congresso e ricorrendo agli strumenti formali previsti e regolamentati. Ammaestrati e, per la verità, anche un po’ scottati dalla esperienza degli emendamenti “fatti propri”, pensammo fosse maturata la necessità e giunto il momento di dar vita ad una attività organizzata, più stabile e continuativa: nacque “La Quercia e l’Ulivo”.

Mettemmo subito in chiaro – non per conformismo ma per coerenza con le nostre intenzioni, pur in presenza di qualche opinione diversa – che non si costituiva una “componente” del partito ma un’associazione di libera ricerca e confronto politico, di approfondimento culturale e di elaborazione programmatica, con l’obiettivo di rinnovare la politica e la sinistra; una associazione aperta, quindi, a chiunque condividesse questo obiettivo.  

Prestammo, ovviamente, attenzione all’attualità politica, a cominciare dai lavori della Bicamerale per la riforma costituzionale che dominò il 1997, in particolare la prima metà e ripropose all’attenzione e alla discussione un nucleo di questioni da tempo al centro del nostro interesse e che consideravamo decisive. Ci impegnammo anche negli “Stati generali della sinistra” che daranno luogo ai Ds; operazione che intendeva concludere la parabola che, partendo dal Pci, avrebbe dovuto portare a quella sinistra nuova, unita, moderna che – almeno a parole – tutti dicevano di volere. Per noi quell’operazione – verticistica e burocratica, tutt’altro che “costituente” – andava in altro senso e non sarebbe certamente stata definitiva; senza dire che, dopo Gargonza, ci sembrava volesse chiudere di fatto ogni discorso sull’Ulivo. Eppure l’Ulivo era ancora al governo, era ancora il governo.

 

Rinnovare la cultura politica

Non mancarono, dunque, motivi e occasioni per la battaglia politica. Ma l’impegno largamente prevalente de “La Quercia e l’Ulivo” nel biennio in cui si sviluppò, fu soprattutto di carattere culturale[5]. Cercammo di prendere sul serio quel che noi stessi (ma non eravamo i soli) ci ripetevamo continuamente: la sinistra deve rinnovare la sua cultura politica, sottoporre a severa verifica e – se necessario – cambiare le categorie, i criteri interpretativi cui si era affidata per lungo tempo, anche quelli che ci erano stati consegnati e che noi stessi avevamo preservato a lungo come fondamentali e indiscutibili.

Insomma, un modo nuovo di pensare ci sembrava indispensabile anche per affermare un modo nuovo di concepire e praticare la politica. Ci dedicammo, dunque, a questo compito con entusiasmo; e anche con quel tanto di incoscienza e di imprudenza (o “spirito d’avventura” che dir si voglia) che di solito accompagna, appunto, l’entusiasmo quando non è esibito e superficiale, ma davvero sentito. Certamente io, ho peccato più di una volta per ingenuità o per audacia; posso aver ecceduto nel lavoro di demolizione, pur sacrosanto, o nella affrettata assunzione di qualche tesi non ancora adeguatamente verificata. Riconosciute tutte le sciocchezze che possiamo aver detto, gli errori che possiamo aver commesso scambiando per scorciatoia  qualche vicolo cieco, una cosa è, però, certa: abbiamo fatto dei passi avanti veri.

Non ci siamo limitati ad auspicare e a sollecitare, ma abbiamo frequentato concretamente modi di pensare innovativi, liberi dalle angosce e dai sensi di colpa dovuti al timore di allontanarci troppo dai nostri “territori” e dalle nostre “basi”. Abbiamo imparato che, se vogliamo guardare avanti, non ci sono più territori o basi da presidiare e tutelare; dobbiamo considerare tutte le aree, le regioni, le atmosfere alle quali possiamo accedere, occasioni di conoscenza, di prova, di sfida per verificare la bontà e la fattibilità dei nostri propositi. Abbiamo scoperto che, quando ti aggiri per conoscere e capire, se incontri altri che non vengono dalla tua stessa direzione ma senti sintonia di intelletto e di volontà, è non solo naturale, ma produttivo e perfino gioioso mettersi insieme e continuare insieme.

Se mi si perdona un po’ di enfasi, abbiamo sperimentato “in vitro” o “su scala minima” quello spirito costituente che avrebbe dovuto diffondersi universalmente e invece, costretto in spazi angusti e senza luce si è rinsecchito fino a soccombere. “Libertàeguale” non solo ha accolto con cura questo lascito fecondo da “La Quercia e l’Ulivo” ma lo ha coltivato, lo ha fatto crescere lo ha consolidato, fino a farlo diventare  tratto essenziale del suo proprio profilo, della propria identità; forse il più apprezzato da chi ad essa partecipa e da quanti ad essa prestano attenzione.

 

Il referendum elettorale manca il quorum

A un certo punto ci rendemmo conto che la cornice politica entro cui “La Quercia e l’Ulivo” era stata pensata e varata e manteneva senso, non esisteva più. Come la stessa denominazione esplicitamente dichiara, il bacino di raccolta, gli interessi prevalenti di quella associazione derivano dalla esperienza che avevamo fatto fino al 1997, in particolare nella fase congressuale, e con il governo dell’Ulivo ancora in carica. Alla caduta di Prodi capimmo che l’Ulivo aveva preso un colpo dal quale non si sarebbe ripreso. Tutto quanto seguì diceva che la tendenza era piuttosto verso una restaurazione della logica partitica.

Ci impegnammo, allora, nella promozione del referendum per abolire il secondo voto proporzionale alla Camera; affidavamo a questa modifica della legge elettorale, forse con eccesso di ottimismo, la ripresa della logica maggioritaria contro la frammentazione partitica e la dispersione proporzionale. L’esito del referendum fu negativo e beffardo, con oltre 21 milioni di SI e il quorum mancato per 160.000 voti. A pochi mesi dalla fine del governo dell’Ulivo, quell’esito diceva che una stagione era finita. Il “bipolarismo” innescato dal moto referendario non aveva più alimento; come non aveva più senso cercare di far scaturire un nuovo soggetto politico dalla evoluzione dell’alleanza che, con il simbolo dell’Ulivo, aveva riportato la vittoria nelle elezioni del 1996.

Senza abbandonare né la “vocazione maggioritaria” né l’idea di una “sinistra di governo” (a pensarci bene, due punti di vista per mirare a identico bersaglio) si doveva però cercare un’altra strada, un altro passaggio. Diventava decisivo il lavoro per raccogliere in un “pilastro riformista” (usammo questa espressione) forze e idee sufficienti a emanare un potere di attrazione capace di alimentare e di vincere la competizione alternativa per il governo.

 

Verso un ‘pilastro riformista’

In un certo senso, andava capovolto il modo di procedere. Con “La Quercia e l’Ulivo” l’aggregazione indotta dalla legge elettorale metteva a disposizione la forza che si doveva rendere omogenea quanto a cultura politica, programmi di governo e leadership; adesso diventava preliminare il superamento di ogni ambiguità o renitenza nell’innovazione politica e nella precisa definizione delle policies, essenziale per la raccolta e la selezione delle forze utili allo scopo.

C’era continuità, ma c’era anche un indiscutibile cambiamento di prospettiva. Non sorprende, dunque, che alcuni abbiano rifiutato di compiere il passaggio a “Libertàeguale”. Tanto chi quel passaggio l’ha fatto, quanto chi l’ha rifiutato hanno però dimostrato, nelle scelte successive, che la decisione presa in quell’occasione derivava da inclinazioni e intenzioni politiche sinceramente vissute ed effettivamente diverse; per tutti fu, dunque, un atto di chiarezza e di lealtà.

Comunque, la gran parte di coloro che avevano fatto l’esperienza di “La Quercia e l’Ulivo”, entrò a far parte di “Libertàeguale”. Evidentemente si era avviata non solo una comunicazione utile, uno scambio intellettuale fecondo; anche sul terreno più strettamente politico, sulla idea di cosa debba e possa essere il riformismo oggi, le posizioni si erano avvicinate e – fatto impossibile da sopravalutare – si era creata una fiducia, una confidenza vera fra persone libere.

 

Libertà Eguale: una confidenza vera tra persone libere

Credo sia questa la risorsa più importante che ha consentito anche a “Libertàegauale” di raccogliere prima interesse, poi adesione di persone nuove, provenienti da itinerari diversi: schiettamente liberali, socialisti, dell’associazionismo cattolico, specificamente fucino. Associo tutte queste persone nel ricordo di Luciano Cafagna che di “Libertàeguale è stato il primo presidente.

Si arriva, così, al 29 novembre 1999, giorno in cui “Libertàeguale” inizia il suo cammino. Io potevo provare a raccontare come ci si è arrivati; o, almeno, come ci sono arrivato io. Esattamente dieci anni prima, in quegli stessi giorni dell’anno, ero immerso – potrei dire sprofondato – nel dramma che ci metteva tutti alla prova e alla frusta. Guardando al decennio che avevo alle spalle dal punto in cui, con “Libertàeguale” mi trovavo quel 29 novembre, due erano i sentimenti che provavo: avevo fatto un cammino molto difficile ma non inutile; non avevo perso l’interesse e la voglia di continuare.

Era vero allora, dieci anni dopo la caduta del Muro; come è vero oggi, al diciottesimo appuntamento di Orvieto, quando “Libertàeguale” diventa maggiorenne.

 

 

[1] Oltre a me, in quella occasione parlarono Enrico Morando, Carlo Rognoni, Michele Salvati, Giulia Rodano, Biagio De Giovanni, Silvio Mantovani, Luigi Covatta, Giulio Quercini, Paola Gaiotti De Biase, Claudia Mancina

[2] Si svolgeranno al Palaeur di Roma dal 20 al 23 febbraio 1997 e verranno catalogate come “secondo congresso del Pds”. In realtà fu il primo e unico. Il precedente di Rimini (febbraio 1991) dal quale erano trascorsi sei anni si concluse con la nascita del Pds e la scissione che porterà a Rifondazione comunista, ma fu l’ultimo del Pci. Al successivo congresso (Torino 13-16 gennaio 2000) al posto del Pds c’erano i DS, nati a seguito degli “Stati generali della sinistra” (Firenze, febbraio 1998)

[3] In ordine alfabetico. Mauro Agostini, Augusto Barbera, Aldo Cennamo, Maurizio Chiocchetti. Luigi Colajanni, Maria Grazia Daniele Galdi, Antonello Falomi, Michele Figurelli, Angelo Fredda, Paola Gaiotti, Antonio La Forgia, Claudia Mancina, Silvio Mantovani, Enrico Morando,  Magda Negri, Graziella Pagano, Gianfranco Pasquino, Claudio Petruccioli, Giulio Quercini, Giulia Rodano, Carlo Rognoni, Michele Salvati, Roberto Vitali

[4] I nuovi firmatari erano: Aldo Amati, Giorgio Ardito, Vincenzo Bertolini, Marisa Cinciari Rodano, Giuseppe d’Alò, Nino Daniele, Pino De Chiara, Guido Fanti, Matteo Grifa, Renato Grilli, Miriam Mafai, Enrico Magni, Luigi Mariucci. Emilio Russo, Maria Antonietta Sentori

[5] Gli appuntamenti più importanti furono due assemblee. La prima a Bologna nella Sala Carisbo, il 21 giugno 1997 sul tema “Una idea di politica, una idea di sinistra”; la seconda a Firenze nella Sala Eurostar, il 29 novembre 1997 sul tema “Il soggetto del bipolarismo – La politica dopo la Bicamerale

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