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Fantasia vs omologazione

Mario Rodriguez venerdì 2 Ottobre 2015
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Pubblichiamo l’intervento di Mario Rodriguez alla XVI Assemblea annuale di Libertàeguale

La relazione di Claudio Petruccioli ha messo in evidenza che il partito democratico, soprattutto in questa fase caratterizzata dall’affermazione di Matteo Renzi, ha assunto (o ribadito) alcune caratteristiche che possiamo considerare acquisizioni condivise all’interno della nostra associazione: lo schema maggioritario e bipolare delle regole del gioco, la vocazione maggioritaria, il ruolo indispensabile della leadership, la contendibilità della leadership stessa, l’apertura agli elettori (la più ampia) dei processi di scelta della leadership nazionale, quindi lo spostamento del baricentro della legittimazione dagli iscritti agli elettori. Di qui, le due caratteristiche più visibili: l’identificazione premier/leader e il metodo delle cosiddette primarie per sceglierlo.

Sul riconoscimento del ruolo della leadership, come elemento essenziale di ogni processo di innovazione, mi è parso di cogliere nel nostro dibattito ancora qualche fatica. Credo che invece si debba riconoscerne l’essenzialità e pensare l’organizzazione della rappresentanza di conseguenza. Insomma proporsi di far vivere un partito che valorizzi l’emersione delle leadership, che sia pronto a domare il puledro ma non ad azzopparlo, prevedere verifiche e bilanciamenti ma non impedimenti. Un partito quindi che consideri la discontinuità innovativa tipica dei leader un fatto fisiologico e positivo non una minaccia alla continuità e agli equilibri interni. Un partito che sia strutturato sulla contendibilità delle leadership come fatto fisiologico, che non creda che il “collettivo” sia un modello di per sé preferibile al campione. La squadra serve al campione ma la squadra senza campione non vince.

A sostegno della necessità della discontinuità innovativa mi è venuta in mente una frase di Henry Ford che diceva che se avesse chiesto alla gente di cosa aveva bisogno gli avrebbero risposto una carrozza a cavalli più veloce e comoda, nessuno avrebbe detto un’automobile! L’innovatore pensa qualcosa che non è stato pensato prima. Pensa qualcosa che è maturo o che sta maturando nel suo tempo ma egli fa il salto, pensa qualcosa che non è stata ancora pensata. Questo vale anche in politica. È la capacità di inserire gli avvenimenti in una storia diversa in grado di avere il consenso necessario per governare e cioè capace di motivare le persone ad assumere determinati comportamenti, a cominciare dal voto.

Ma Henry Ford diceva anche che le strade e i ponti sono stati realizzati perché c’erano le automobili, non viceversa. Per i carri e le carrozze bastavano quelli che c’erano. Certo quelli che amano la pianificazione centralizzata, i sostenitori di visioni del mondo ortopediche e pedagogiche, potrebbero sostenere che tutto funzionerebbe meglio se prima delle auto si fossero costruite le strade. Ma la storia umana non funziona così e le innovazioni producono sempre squilibri, conflitti, “tumulti e ordini nuovi”.

Quindi c’è bisogno – soprattutto nei momenti di profondo cambiamento come quello attuale – di innovazione, di vedere le cose in modi diversi, c’è bisogno di produrre capacità di leadership innovativa. Negli anni recenti a me pare che nel campo politico e nelle forme organizzative della rappresentanza politica sotto i colpi della disintermediazione indotta dalle innovazioni tecnologiche della comunicazione e con l’avvento della democrazia del pubblico, sono state prodotte delle “auto” e ora si devono costruire le “strade” per restare nella similitudine. Bisogna affrontare le conseguenze di questa rottura di paradigma. Perché si tratta di una profonda discontinuità rispetto al passato. Le “auto”, le innovazioni che sono state immesse nel campo politico in Italia sono appunto: lo schema maggioritario e bipolare, il ruolo e la contendibilità della leadership, lo spostamento del baricentro della legittimazione dagli iscritti agli elettori, l’identificazione di premier e leader e il metodo delle cosiddette primarie per sceglierlo. Le primarie per il leader/(candidato)premier sono la chiave di volta di tutto il nuovo sistema, adesso il funzionamento dell’organizzazione, lo sviluppo della forma organizzativa, va adeguato ad essa.

L’identificazione leader/premier sta funzionando abbastanza bene – non vanno nascoste le difficoltà – a livello nazionale ma questa non ha ancora scaricato i proprio effetti sul modo di stare nella società ai vari livelli: nelle regioni e nei comuni. Ci si deve porre la domanda perché l’identificazione leader/premier non ha funzionato ad esempio a livello comunale anche dopo quasi vent’anni di legge elettorale maggioritaria ed elezione diretta del leader? Perché l’organizzazione sul territorio non si è adeguata e sopravvivono in sostanza le vecchie intelaiature delle Federazioni e delle sezioni? È uno schema che funziona a livello nazionale ma non a quello locale? Quello che vale per il governo nazionale e per il partito nazionale deve valere per una regione o per un comune? Il candidato sindaco è il leader del partito a livello locale? Il governatore della Regione è il leader del partito a livello regionale? Le primarie vanno fatte diventare fisiologiche nella vita dell’organizzazione a tutti i livelli? E che grado di apertura agli elettori si vuole dare alla scelta delle cariche di partito? Che rapporto tra congresso e primarie? Tra gruppi dirigenti di partito ed eletti? Conta il sindaco o conta il segretario del partito? Non sembri banale. Il circolo si occupa del quartiere, della circoscrizione, della città, della regione o del governo nazionale? Se pensiamo opportuna e necessaria un’organizzazione diffusa su tutto il territorio pensiamo debba assumere un modello organizzativo unico o debba essere multilevel, veder convivere diverse forme organizzative e diverse funzioni?

Quale ruolo e quali funzioni (anche limiti e vincoli) vanno dati al personale tecnico senza il quale un’organizzazione non vive? Quindi che rapporto tra il personale tecnico e quello politico?

Non possiamo fermarci all’affermazione di principio bisogna sperimentare forme efficaci di organizzazione.

Quando pensiamo che il partito debba essere principalmente funzionale all’attività del governo nazionale non rischiamo di proporre uno schema organizzativo piramidale top down che assomiglia un po’ troppo alla antica cinghia di trasmissione? E pensare che il flusso top down possa essere affiancato da un flusso inverso bottom up che dai circoli porta al governo nazionale istanze e consigli non è un cedimento alla demagogia partecipazionista, la sottovalutazione del ruolo delle competenze e della delega, una versione casareccia della vecchia utopia della cuoca che governa risolata malamente dal M5Stelle?

Orientare tutta l’attività del partito al “sostegno delle riforme” cioè dell’attività di governo è da un lato troppo e dall’altro troppo poco. Si sopravvaluta la capacità della presenza organizzata di intercettare e influenzare l’opinione delle persone. Nell’epoca della profonda mutazione del leggere, ascoltare, scrivere, un’organizzazione a piramide (piramide di piramidi più piccole) non riesce a innescare una comunicazione top down tanto efficace da creare un clima positivo attorno all’attività di governo. Nel nostro tempo il clima di opinione non può che passare dal news management, da una sapiente gestione delle relazioni con il sistema mediatica vecchio e nuovo, ma sempre tv in testa, scavalcando la mediazione di qualsiasi forma organizzativa. Ciò che è necessario invece è una organizzazione a rete in cui i diversi nodi si specializzano in autonomia e sono interconnessi: insomma un’organizzazione arcipelago dove le persone si incontrano e si associano con motivazioni diverse e poi convergono nei momenti cruciali della selezione dei gruppi dirigenti e delle primarie per le cariche monocratiche. E facendo così, esercitano il ruolo di palestra che seleziona e addestra (possibili) campioni politici. Insomma persone che si associano liberamente per costruire relazioni di reciproca fiducia piuttosto che per diventare elementi di un meccanismo di propaganda. Forse attratte anche dal bisogno esistenziale di poter contare nelle decisioni che gli stanno a cuore (bisogno da rispettare, non deludere ma non illudere). E nella relazione di fiducia rientra certamente il leader e la sua leadership.

E allora la domanda torna ad essere quella basilare: a cosa serve un’organizzazione politica diffusa sul territorio? La sua funzione davvero si esaurisce nel sostegno del comportamento parlamentare (ora di governo ora di opposizione)? O la funzione principale è quella di essere un’agenzia di reclutamento e selezione di persone che ispirate da alcuni principi e tenute insieme da una relazione di fiducia vogliono mettersi alla prova del governo cioè modificare la realtà? C’è ancora molto da elaborare per consolidare le innovazioni introdotte e bisogna farlo in fretta con un sano sperimentalismo pragmatico, error and trial.

C’è poi una questione sulla quale necessariamente bisognerà tornare. Pensare che al partito spetti il compito di rendere più appetibile una proposta politica significa affrontare il problema di come si costruisce il consenso attorno a una proposta politica. A me pare che anche nella nostra discussione e più in generale nei vertici organizzativi del Pd si pensi ancora in termini di propagare, fare propaganda, individuare dei target e bersagliarli con informazioni che (pretendendosi) appropriate dovrebbero convincere e motivare all’azione. In questa impostazione la comunicazione serve a convincere e il partito è il meccanismo necessario.

Non credo che funzioni così, la costruzione del consenso non passa dal convincimento ma dalla costruzione di una relazione di fiducia. L’organizzazione piuttosto che essere improntata a propagare argomenti a favore delle attività del governo (le riforme) dovrebbe essere improntata a far vivere esperienze positive che costruiscano relazioni di fiducia tra le persone che si associano per “fare” politica. Certo in questa attività ci sono anche i meccanismi di rafforzamento dell’appartenenza e quindi la diffusione degli argomenti a favore dell’azione del leader (nel nostro caso del governo). Ma il focus va posto sulla relazione non sul convincimento. Di qui l’autonomia e la fantasia organizzativa contro l’omologazione. Non si organizzerà un partito diffuso, aperto, plurale, post ideologico se si pensa che possa esserci un’indicazione vincolante su come devono vivere e organizzarsi i circoli (non “sezioni” ma circoli!): bisogna fare questo e no quest’altro! Che ognuno si organizzi come meglio crede: per i problemi del quartiere o per discutere della buona scuola, per fare formazione politica o per organizzare una festa. Poi, assieme, si convergerà nei grandi momenti organizzativi dei congressi e delle primarie, e se capita, delle grandi campagne tematiche. Tanto l’informazione diffusa si prende nell’aria che si respira! Spetterà poi agli eletti, a livello delle proprie assemblee, organizzarsi per comunicare direttamente ai cittadini le proprie attività senza demandarle alle organizzazioni territoriali che non sono i loro uffici territoriali ma entità autonome con le quali sviluppare una relazione collaborativa e competitiva: le organizzazioni sul territorio devono comprendere che senza un rapporto con gli eletti le loro istanze, le loro aspirazioni, rimangono nell’ambito della testimonianza fuori dal circuito del potere. E gli eletti devono riconoscere che senza un rapporto forte e positivo con le presenze sul territorio la loro capacità di costruire consenso e rimanere in carica diminuisce drasticamente.

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