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Fuori dalla Ue non c’è una “terra di latte e miele”

Alessandro Maran martedì 17 Novembre 2015
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Venerdì sera, mentre si stava consumando l’attacco a Parigi, Ian Bremmer, il presidente di Eurasia Group, ha scritto su Twitter:«At a time when European solidarity is most urgent, the nations of Europe stand critically divided». L’attacco dei terroristi a Parigi testimonia che l’Europa è un fronte della guerra che si combatte in Siria ed in Iraq contro i gruppi jihadisti. Ma i limiti politici e strutturali del nostro continente nella difesa della sicurezza dei cittadini sono sotto gli occhi di tutti.

C’è una guerra in corso e l’integrazione europea stenta a decollare. Ed ora, proprio la concomitanza di elementi imprevisti (le sfide legate ai profughi e ai migranti, alla guerra asimmetrica in corso, alla sicurezza interna ed esterna, alla necessità di spendersi seriamente per lo sviluppo dell’Africa e del Medio Oriente, anche per evitare che si scarichino sull’Europa flussi e tensioni insostenibili) sembra destinata a trasformare il Brexit in una prospettiva concreta, con implicazioni politiche potenzialmente devastanti.

Il Primo Ministro David Cameron martedì scorso ha reso pubbliche ufficialmente le condizioni della Gran Bretagna per rimanere nell’Unione Europea. La scommessa del premier inglese è che i cambiamenti vagheggiati nei rapporti del suo paese con Bruxelles gli bastino per vincere sulla maggioranza degli elettori inglesi ma siano abbastanza contenuti da essere trangugiati dal resto d’Europa.

Nel suo discorso alla Chatham House e nella lettera con le proposte di riforma inviata a Donald Tusk e Jean-Claude Juncker, David Cameron ha esortato i leader europei a garantirgli quella serie di concessioni che lo aiutino a convincere gli esitanti elettori inglesi a rimanere in una aggregazione che i critici ritengono sia diventata una enorme burocrazia che pregiudica la loro sovranità nazionale e il loro stile di vita.

Il premier inglese ha proposto di sottoporre l’argomento a referendum per la fine del 2017 e i suoi consiglieri fanno sapere che potrebbe farlo prima, entro il prossimo giugno. Nel suo discorso, Cameron ha detto agli elettori inglesi che l’ultima parola spetterà a loro: una scelta che si fa una volta in una generazione. «Avete il destino del paese nelle vostre mani – ha detto Cameron – Questa è una decisione di enorme portata per il nostro paese, forse la più la più grande che faremo nella nostra vita». Ma il negoziato sulle richieste del Regno Unito sarà decisivo anche per le altre nazioni, a cominciare dalla Germania e dalla Francia, che stanno lottando per mantenere coesione e la percezione stessa di un progresso all’interno dell’Unione, dopo anni in cui la stagnazione economica, il populismo crescente e il nazionalismo assertivo hanno tagliato l’erba sotto i piedi al progetto di legare insieme più strettamente i governi ed i popoli del continente.

Dopo mesi di caute discussioni con i leader europei, che in linea di massima vogliono che la Gran Bretagna rimanga ma sono restii a modificare i principi fondamentali dell’Unione, David Cameron spera di porre le basi di una intesa al prossimo summit della Ue a metà dicembre o, al più tardi, in un incontro di emergenza nei primi giorni del prossimo anno. I suoi consiglieri dicono che non vuole trascinare in avanti il referendum, e c’è chi dice che preferirebbe tenerlo prima di un’altra caotica estate contrassegnata da ondate di migranti in Europa. Anche perché la problematica gestione della faccenda ha già minato la reputazione dell’Unione europea agli occhi degli inglesi.

Le richieste del premier inglese includono garanzie vincolanti sul piano legale che i 19 membri dell’Eurozona non prendano decisioni che possano influire sull’economia del Regno Unito, che continua a mantenere la sterlina; la fine dell’impegno legale della Gran Bretagna, così come previsto dai trattati dell’Unione Europea a perseguire una sempre più stretta unione che i conservatori vedono come una minaccia alla sovranità nazionale. Cameron vuole anche limitare quella che considera una eccessiva regolamentazione e burocrazia dell’Ue per lanciare la crescita. «Nonostante i risultati ottenuti limitando il flusso di nuove regolamentazioni, il peso dell’attuale regolamentazione è ancora troppo alto», ha scritto a Tusk. Inoltre, e questo è il nodo cruciale, Il leader britannico vuole ridurre l’afflusso di migranti nel Regno Unito sospendendo il diritto alla libertà di circolazione per i cittadini dei nuovi Stati membri dell’Ue fino a quando le loro economie non si saranno allineate a quelle dei membri già esistenti. Cameron punta anche limitare l’accesso al welfare per questa stessa categoria di migranti (quattro anni di lavoro e tasse pagate prima di aver diritto ad aiuti statali).

David Cameron ha detto chiaramente che vuole un’intesa che consenta alla Gran Bretagna di rimanere, ma nell’intento di conservare una certa capacità negoziale e la sua credibilità con la destra anti-europea del suo partito, ha anche avvertito che, se necessario, è disposto ad andarsene e che ritiene che il Regno Unito possa fare bene anche da solo se l’Unione non gli garantisce quello che vuole. Secondo i sondaggi, l’opinione pubblica inglese resta divisa nettamente sul merito della partecipazione all’Unione. E, ovviamente, il premier inglese cerca di mantenersi in un equilibrio delicato. Il suo discorso contiene infatti elementi pro-europei e, allo stesso tempo, un linguaggio molto aggressivo. Sta cercando di mostrare che è uno tosto. Vuole restare ma, almeno in apparenza, deve mantenere l’atteggiamento di chi è disposto ad andarsene, dato che questa è la logica su cui si fonda la rinegoziazione. Molti dei conservatori che stanno facendo campagna affinché la Gran Bretagna esca dall’Unione, hanno descritto intanto gli obiettivi di Cameron come «straordinariamente privi di ambizioni». E c’è chi si aspetta che il premier ottenga quello che sta chiedendo, ma considera quel che sta chiedendo del tutto «irrilevante».

L’aspetto più difficile della trattativa è probabilmente quello che riguarda il suo piano di ridurre l’immigrazione limitando il sostegno sociale per i migranti in arrivo dagli altri Paesi Ue per i primi quattro anni in Gran Bretagna. Anche perché implicherebbe un modifica delle regole europee attuali che stabiliscono che i cittadini di tutti i paesi dell’Unione devono essere trattati equamente. Va da sé che Cameron sta cercando una maniera di contenere l’immigrazione in un momento in cui l’elevata disoccupazione nel continente sta portando molti europei a cercare lavoro nella relativamente robusta economia della Gran Bretagna. Altri governi europei hanno detto in maniera chiara che non sono disponibili ad alterare quello che considerano un elemento fondamentale dell’Europa unita – il principio della libertà di movimento e lavoro all’interno dell’area – per far contenta la Gran Bretagna. Non per caso, nella lettera per il presidente del consiglio europeo Donald Tusk, Cameron ha segnalato una certa flessibilità sulla questione dei sussidi per gli immigrati.«Capisco quanto siano difficili alcune di queste questioni per altri Stati membri, e mi aspetto di discutere queste proposte ulteriormente affinché si possa trovare una soluzione che affronti la faccenda», così ha scritto il premier inglese nella lettera che ha indirizzato a Tusk, ex Primo Ministro della Polonia, un paese con centinaia di migliaia di cittadini che lavorano in Gran Bretagna.

David Cameron ha proposto una consultazione popolare quasi tre anni fa proprio per calmare il sentimento anti-europeo del suo partito, ma si è rivelata una decisione che oggi lo lascia alle prese con una delle sfide più difficili del suo mandato. La sua richiesta che la Gran Bretagna sia dispensata dall’impegno dell’Europa verso «un’unione sempre più stretta» la dice lunghissima dei suoi sforzi per rassicurare i critici più veementi degli obiettivi europei. La frase, che risale ai documenti fondamentali che hanno anticipato l’odierna Unione europea, è importante per gli antieuropei poiché suggerisce un continuo cedimento di autorità verso Bruxelles. Ma la frase in realtà  parla di «una sempre più stretta unione tra i popoli dell’Europa», non necessariamente tra i suoi governi, e in ogni caso, è più una aspirazione che una prescrizione. In un passaggio bene accolto dai pro-europei David Cameron ha detto che anche se la Gran Bretagna può sopravvivere fuori dall’Unione, lasciarla non condurrebbe automaticamente la nazione «in una terra di latte miele» e che la decisione di andarsene dovrebbe essere presa «con gli occhi ben aperti». Ma ha anche ammonito che se non dovesse riuscire a raggiungere gli obiettivi del negoziato e le sue richieste dovessero cadere nel vuoto, la Gran Bretagna dovrebbe «ripensare» la propria partecipazione. Fatto sta che per quanto le preoccupazioni di Cameron possano apparire rilevanti, non sembrano così importanti da compromettere i benefici della partecipazione all’Unione. C’è chi ha osservato che è un po’ come minacciare di rompere un matrimonio quarantennale perché tuo marito non mette il tappo al tubetto del dentifricio.

Va da sé che le clausole di favore dovrebbero aiutare Cameron a battere l’idea della separazione. E vista la posta in gioco, non sarà impossibile concedere qualcosa di più alla Gran Bretagna. Che poi le clausole (che non potranno essere così straordinarie) bastino a convincere vittoriosamente l’opinione pubblica dell’isola, è un altro paio di maniche. Quasi certamente dalla trattativa uscirà uno degli ennesimi pasticci grazie ai quali l’Europa è riuscita sin qui a sopravvivere. Così però non si va da nessuna parte. L’assetto dell’Unione è già fragile e in questo modo si finirà per favorire il gioco dei populisti e alimentare quei processi di dissoluzione che già si cominciano ad intravedere. Di questo passo, anche altri Paesi finiranno per accodarsi alle richieste britanniche o ne trarranno pretesto per chiedere di smantellare altri pezzi d’integrazione aprendo così un vaso di Pandora impossibile da richiudere. Specie adesso che il gioco si fa duro.

Oltretutto, è improbabile che il referendum si riveli decisivo. Ed è verosimile che anche una vittoria dei sì non sia che un altro episodio di una saga interminabile. C’è da auspicare, in ogni caso, il male minore, considerato che il costo della separazione sarebbe ben superiore a quello dell’ambiguità. Anche perché abbiamo guai più urgenti di cui occuparci. Infatti, molti nodi ora stanno venendo al pettine. E ci dobbiamo chiedere anzitutto: se il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali che svolgeranno il ruolo degli Stati nel sistema vestafaliano, se strutture continentali come l’America, la Cina e forse l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica, l’Europa ci vuol provare o no ad affrontare la sua transizione al rango di unità regionale? Vuol provare o no a conseguire un’unità significativa? Non sarebbe ora che gli europei smettessero di eludere il problema delle politiche di difesa (Obama lo ha ripetuto fino alla noia)? Non sarebbe ora che il negoziato transatlantico su commercio e investimenti venisse condotto con piena coscienza della posta in gioco?

Come ha osservato Carlo Pelanda «Bruxelles non esiste come interlocutore internazionale e mostra sempre più crepe. L’unica cosa che tiene ancora insieme il Vecchio Continente sono proprio gli Stati Uniti» e se «il Ttip dovesse fallire, per l’Europa si aprirebbe uno scenario fosco, che la vedrebbe divisa tra una regione a influenza americana e un’altra a influenza sino-russa, con la Repubblica Popolare a dettare le regole». Insomma, quel che dovrebbe farsi strada è proprio la consapevolezza che in assenza di una nazione democratica sufficientemente forte da essere un punto di riferimento e contrastare le potenze emergenti del capitalismo autoritario, un nuovo centro capace di esercitare una funzione ordinatrice può emergere soltanto come alleanza globale tra democrazie, cementata da un mercato comune. L’ampiezza del negoziato mira infatti a costruire una relazione più strutturale e soprattutto più politica con l’Europa.

Come si fa a non vedere che l’importanza strategica di un accordo per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra le due aree economiche più avanzate del pianeta va molto oltre la sua valenza economica?  Senza contare che, come ha rilevato Adolfo Battaglia proprio a proposito del Brexit, «un elemento di natura politica potrebbe, forse, fare meglio di ciò che difficilmente farà un negoziato strascinato. Il mercato euro-atlantico delineato dal Ttip porterebbe l’Europa a una condizione di forte connessione economica, ed inevitabilmente politica, con gli Stati Uniti. E altrettanto inevitabilmente lascerebbe la special partnership tra Gran Bretagna e Stati Uniti alquanto priva di vento nelle vele. Verrebbe colpita la concezione degli anti-europei britannici secondo la quale, dopo l’abbandono dell’Europa, il Regno Unito avrebbe come alternativa il rafforzamento della tradizionale relazione con l’America. Sarebbe piuttosto l’Europa ad avere una special relationship con gli Stati Uniti. Se la Gran Bretagna uscisse dall’Ue troverebbe uno spazio occupato da una struttura più forte. E il costo che in ogni caso dovrebbe pagare per l’uscita diverrebbe assai maggiore. Anche gli scozzesi più stolidi dovrebbero abbandonare questi terreni scivolosi. Esser fuori dall’Europa, isolati nel mondo, ma alle prese con i movimenti e le novità indotti dalla globalizzazione, non sembra una prospettiva che possa aiutare gli anti-europei del Regno Unito».

E il Labour? Il Labour Party in questi giorni era alle prese con una disputa nodale: Jeremy Corbyn avrebbe dovuto inginocchiarsi davanti alla Regina? Ora che Jeremy Corbyn è riuscito finalmente ad entrare a far parte del Privy Council (il consiglio privato di Sua Maestà che discute anche di questioni legate alla sicurezza nazionale), apparentemente senza piegare il ginocchio davanti alla sovrana, atto previsto dal cerimoniale ma in contraddizione con la sua storia di militante della sinistra repubblicana (ovviamente i giornali di destra avevano cavalcato lo «scandalo»), il Labour può provare a tornare in contatto con il mondo moderno. Già ai tempi della Thatcher, l’estrema sinistra del Labour, aveva stampato sugli striscioni un famoso slo­gan «No compromise with the electorate». Si sa come è andata a finire.

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