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Le tre debolezze dell’Università italiana

Gioele Gambaro mercoledì 4 Maggio 2016
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Traditional hat toss. Some motion blur.

Svariati elementi, dal recente ridisegno dell’Anvur (l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) alla polemica fra il ministro Giannini e alcuni ricercatori (leggi Repubblica del 13 febbraio) hanno riportato in primo piano i molti guai che affliggono l’Università italiana.

Sembrano essere tre le principali aree di debolezza dei nostri atenei: l’elevato tasso di drop-out, ossia il tasso di abbandono (come illustrato in un articolo su lavoce.it da Daniele Checchi), la mancanza di un differenziale fra una traccia teorica e una applicata, e l’assetto del sistema tendente a penalizzare i ricercatori, spingendoli non di rado a cercare borse di studio all’estero.

Ma quali sono le cause fondamentali di questo problema? Probabilmente il più rilevante è quello più sottovalutato, vale a dire la presenza di un “binario unico”.

Un sistema di istruzione avanzato deve grosso modo rispondere a tre tipologie di studenti. Studenti desiderosi unicamente di conseguire una qualche forma di breve diploma universitario, che gli dia una maggiore specializzazione tecnica (in Italia, questo genere di domanda viene in genere dalla fascia alta degli studenti degli Itis); studenti mediamente motivati, che quantitativamente sono la maggior parte della popolazione studentesca, determinati a portare a termine un percorso di laurea a patto che non sia eccessivamente demanding. Infine, studenti d’èlite, proiettati verso carriere nelle grosse multinazionali o in PhD all’estero.

Nella maggior parte dei paesi stranieri, queste tre tipologie di studenti trovano a loro disposizione un percorso fatto su misura per la loro vocazione: in ambiente tedesco e scandinavo sono molto richieste le scuole professionalizzati mentre, in ambiente anglosassone, sono in parte le università che suppliscono a questa funzione; la Francia, sin dal periodo napoleonico, ha predisposto come circuito d’èlite il sistema delle Grandes Ecoles; negli Usa, le università dell’Ivy League svolgono questa funzione.

In Italia, invece, si è scelto di optare per un sistema a “taglia unica” che vada bene per tutti, di livello medio-alto, ed è questo probabilmente il più importante dei fattori che spiega le distorsioni che abbiamo sopra elencato: essendo da una parte troppo complesso per gli studenti meno motivati, si ha un gran numero di fuori corso ed il tasso di abbandono è estremamente elevato. Dall’altro, questi corsi sono troppi facili per gli studenti d’èlite, e questo spiega il voto medio di laurea, intorno al 106\110.

A questo riguardo, vorrei far notare che l’unica esperienza che avevamo avuto in tal senso, i diplomi universitari biennali, precedenti alla riforma del 3+2, avevano avuto un notevole successo. Non si pensi dunque che ci sia qualche peculiarità del nostro paese che ci impedisce di adottare diversi circuiti universitari.

Come nota positiva c’è da dire che una parziale soluzione si sta sviluppando grazie alla graduale introduzione dei corsi di laurea in inglese. Tali corsi tendono a essere scelti da studenti più motivati, e pertanto ad avere, a livello di didattica, un livello di complessità maggiore rispetto al corrispettivo corso in italiano.

Si potrebbe pensare che a questa situazione così congestionata si sia risposto con una precisa politica di verifica delle competenze in ingresso: vale a dire, effettuare preliminarmente che il livello di competenze conseguito  durante la scuola superiore sia congruo con il percorso di laurea che si intende intraprendere ed, eventualmente, predisporre dei corsi di recupero. In effetti, questa è la prassi nella maggior parte dei sistemi universitari occidentali. In Italia, invece, si è scelto di affidarsi ad una sorta di selezione naturale in corso d’opera, contando sul fatto che gli studenti avrebbero autonomamente integrato le competenze che gli  mancavano. Riteniamo non ci sia bisogno di specificare che questa è la seconda causa che spiega l’elevato tasso di abbandono.

Resta comunque un punto fisso che senza un adeguato finanziamento economico anche il migliore sistema universitario risulterà poco competitivo: l’Italia spende per esso circa l’1% del PIL, e si confronta con Paesi che spendono il 2, 2,5%. E’ naturalmente necessario, come per tutta la pubblica amministrazione, evitare sprechi. Va però considerato che i docenti sono sottoposti a una doppia valutazione, sulla didattica e sulla ricerca, e sono pochi i comparti della PA che possono vantare misurazioni così stringenti delle perfomance lavorative.

Qualche parola, infine, sui problemi dei giovani ricercatori italiani: quello forse più cogente è il fatto che essi non lavorano, come avviene ad esempio in Germania, in équipe fisse, ma tendono a formare una nuova squadra per ogni bando. Questo impedisce il crearsi di un rapporto fiduciario, essenziale per portare  a compimento progetti ambiziosi. Questo problema è dovuto all’assenza in Italia di istituti di ricerca, cosa che inoltre porta i dottorandi italiani ad avere un eccessivo carico di effort  sull’assistenza all’insegnamento, sottraendo tempo a quella che dovrebbe essere la loro attività principale, vale a dire la ricerca.

Vi è infine un problema di natura burocratica: in Italia i bandi di ricerca tendono ad essere molto brevi, spesso semestrali, con il risultato che il ricercatore passa meno tempo a fare ricerca di quanto ne spenda a compilare scartoffie necessarie per l’iter burocratico.

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