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Ridefinire l’élite per salvare la democrazia

Andrea Danielli lunedì 9 Gennaio 2017
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elite

Non c’erano dubbi sul fatto che il Movimento 5 Stelle non sarebbe stato in grado di governare una città complessa come Roma. Un editoriale della Stampa, comparso sul finire del 2016 a firma di Giovanni Orsina, spiegava i suoi insuccessi nell’incapacità di costruire una propria classe dirigente. Ho trovato notevole questo passaggio che spiega la natura dell’élite: “Una creatura storica complessa e delicata, che per nascere e svilupparsi ha bisogno di tempo, risorse, regole, fiducia, valori e linguaggi condivisi.”

Se possiamo in parte gioire delle difficoltà di governo di un movimento che fatichiamo a ritenere democratico, dobbiamo al contempo ammettere che nessun concorrente politico può dirsi al riparo da critiche: laddove un’élite esista dobbiamo constatarne la distanza dalle esigenze reali dei cittadini, la sua incapacità di cogliere appieno le grandi sfide poste dal momento storico, la sua sostanziale immutabilità e impenetrabilità.

Mentre i giovani italiani sono sottoposti a condizioni socio-economiche devastanti, molto più gravi di quelle registrate negli anni ’70, che pur diedero luogo ad momenti di guerra civile, invano si cerca di comprendere perché ancora non sia nata una solida élite riformista capace di guidare il Paese nel futuro. Ho la sensazione che la mia generazione si sia arresa quando ha fatto sue le critiche alle élite provenienti da sinistra e destra. Da sinistra l’élite viene criticata perché identificata con la plutocrazia, fondata sul censo (deprecabile perché per lo più proveniente da sfruttamento o furti, sostengono) o per via ereditaria. A destra, dell’élite si criticano i vincoli che pone all’innovazione, al ricambio della società. I populisti lamentano, infine, un tradimento, e a quanto pare vanno in cerca di leader incompetenti ma più rassicuranti.

Criticare alcune élite patologiche, esistenti e identificabili, non significa escludere a priori l’idea per cui la democrazia debba poggiare su un nucleo di cittadini più competente, motivato e capace della media. Può sembrare strano dover spiegare l’ovvio, ma di questi tempi mi tocca. Scopriamo allora che esperienza e competenza servono in qualunque ambito della vita: l’aereo lo guida il pilota, che ha migliaia di ore di volo sulle spalle, il ponte lo progetta l’ingegnere, il grano lo coltivano gli agricoltori, il vino lo fanno gli enologi, la banca i banchieri. Ogni attività citata richiede studio, aggiornamento, competenza.

Ebbene anche amministrare richiede esperienza e studio, per seguire l’evoluzione della normativa, italiana e comunitaria, per seguire le nuove tecnologie, che crescono a ritmi ormai esponenziali, perché la demografia si è modificata, perché il mercato e la produzione sono rapidi ed è facile per un territorio ricco ritrovarsi morente nel giro di dieci anni (alcuni distretti industriali veneti e marchigiani purtroppo insegnano). Politici e amministratori pubblici preparati consentono alla macchina statale di funzionare con più efficienza e riduzione dei costi; fronteggiano meglio il calo di entrate fiscali e l’aumento della disoccupazione. Una buona politica ha poi bisogno di intellettuali (e luoghi dove formarli) e divulgatori, che consentono di creare una coscienza critica negli elettori, così da permettere scelte più razionali. La mancanza di queste figure trasporta la gestione della Res Publica nel clientelismo e nella demagogia. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Non pare così arduo, nella teoria, ipotizzare una soluzione che eviti le succitate critiche: si tratta di creare un’élite accessibile. Nulla di paradossale: a questa élite può accedere chiunque sia in grado di superare le selezioni, senza amicizie, mafiette, clientele, perché si costruisce attraverso un principio veramente meritocratico.

Le condizioni necessarie sono di natura procedurale e socioculturale:

Delle prime identifico le seguenti:

  1. discussione e decisione pubblica dei criteri di selezione
  2. conoscenza pubblica, facilmente accessibile, dei criteri di selezione
  3. immodificabilità dei criteri, una volta decisi
  4. trasparenza nella valutazione e nelle raccomandazioni (consentite purché responsabilizzanti per chi le fa)
  5. apertura a qualunque candidato senza discriminazioni di sorta
  6. limite di incarichi dirigenziali

Socio-culturali:

  1. accettazione di un discreto livello di competizione
  2. creazione di un principio di aggregazione

 

Non entro nel dettaglio, non descrivo le procedure che andrebbero adottate, visibilmente l’obiettivo delle mie considerazioni è politico. D’altronde sono abbastanza auto-evidenti le sei condizioni procedurali: occorre consentire a chiunque di entrare, attraverso la conoscenza dei criteri e la loro stabilità, per poter pianificare i passi necessari per superare le selezioni, serve garantire trasparenza e limitare gli incarichi dirigenziali. Non è il limite grillino dei due mandati, bensì la richiesta di non rimanere inchiodati alla poltrona impedendo la crescita di nuova classe dirigente: dobbiamo imparare che la carriera non è solo questione di anzianità.

Implementare una strategia in grado di rispettare queste condizioni non pare troppo complesso. Più complesso, in un mondo di mediocri, diffondere l’idea che essere eccellenti sia un valore – e non si debba vivere come una colpa da nascondere fin dagli anni delle scuole, dove è meglio non alzare troppo la mano o fare domande difficili ai professori. In una specie di incubo rawlsiano, sentendosi tutti scarsi, si preferisce evitare le competizioni: la mia spiegazione? Non viene identificato correttamente il senso della competizione stessa. Dovremmo ricordarci che la competizione equilibrata ci migliora anche se perdiamo, perché ci spinge a imparare qualcosa di noi, a sacrificarci, ad accrescere le nostre capacità. Se la società punta ad alzare l’asticella, siamo tutti invitati a dare il massimo, con riflessi positivi evidenti. Riusciremo a sopportare lo stress e l’ansia da prestazione? Secondo me sì, se impariamo a fallire, ad avere comunque stima di noi, e se aumentano i posti di valore disponibili – per cui serve più crescita economica e una vera staffetta generazionale. Se impariamo a non essere invidiosi dei successi altrui, a non temere chi è più bravo.
Serve però un principio di aggregazione, una forza che unisca chi vuole dare vita a questa élite accessibile; chi è escluso dai posti di potere, chi non si accontenta della propria posizione. Perché il patto dei mediocri, il “non calpestiamoci i piedi a vicenda”, è solido e produce vantaggi immediati: no stress, nessun sacrificio, mentre il Paese affonda lentamente. Costruire la “competizione con il sorriso”, rispettosa, positiva, ritrovare il valore del lavoro ben fatto , avrà bisogno dell’impegno di una vasta rete di pensatori e comunicatori, di tante storie di autorealizzazione basate sul merito, di un racconto costruttivo e lungimirante.

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