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Aldo Moro e l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo

Carlo Curti Gialdino sabato 10 Maggio 2025
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di Carlo Curti Gialdino

 

1. Angelo Picariello è ben riuscito nel compito di dare un seguito, e che seguito, all’auspicio di liberare Moro dal caso Moro. L’auspicio – come ben sa Picariello, apprezzato quirinalista – era stato formulato dal presidente Mattarella in chiusura del suo intervento in occasione della cerimonia per il centenario della nascita, quando aveva detto che “ripensare compiutamente Aldo Moro e la sua intera vita nella sua dimensione umana, in quella culturale, in quella politica, in quella spirituale, costituisce, oggi, un atto di libertà, una vittoria contro i terroristi e le loro violenze, un risarcimento all’intero Paese.”. Ecco, direi che nell’ampia, pressoché sterminata, bibliografia su Moro, mancasse un volume che avesse l’impostazione che gli ha dato Picariello, acuto giornalista ma anche attento ricercatore, dato che il suo bel libro è adeguatamente documentato. Ho molto apprezzato, in particolare, la tecnica di inserire all’interno del testo, in corpo più piccolo, i passaggi utili a ricostruire l’effettivo pensiero di Moro.
Rilevo che l’auspicio di indagare su Moro a tutto tondo era stato anche formulato sul piano della ricerca storica. Dal nipote Renato Moro, nella medesima occasione centenaria appena ricordata, nella quale aveva rilevato quanto fosse “paradossale la ‘proiezione interpretativa all’indietro’, la tendenza, cioè, a leggere la vicenda di Moro non a partire dal suo inizio, ma dalla sua fine, come se quest’ultima fosse la chiave rivelatrice di tutto…quasi 62 anni di vita contro 55 giorni”.
Ed anche, due anni dopo, in occasione del cinquantenario della strage di via Fani, su Formiche, da chi, come Agostino Giovagnoli, aveva pubblicato nel 2009, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, uno dei più accurati volumi sui 55 giorni del sequestro.

2. In questo breve intervento non mi occuperò, come ho fatto in altre occasioni, di Aldo Moro, mio professore a Scienze Politiche. Picariello ha voluto aprire il volume con la descrizione del mio incontro con Moro nel corridoio prospiciente l’Aula XIII nel febbraio 1970 di cui non avevo mai raccontato prima tutti i dettagli, in particolare i motivi della mia “distrazione” nel partecipare alla prima lezione di Istituzioni di diritto e procedura penale dell’a.a. 1969/1970.
Picariello ha anche ricordato in modo preciso che Moro riteneva che il suo impegno primario fosse quello di docente, che la lezione universitaria e l’attenzione per gli studenti – quelli che avevano ascoltato la sua lezione e quelli che si trovavano in Facoltà per altre ragioni – continuava fuori dell’aula XI e prevaleva sugli impegni “particolari” o “straordinari”, come Moro definiva i suoi incarichi di Governo, parlamentari e di partito. E per questo era molto amato ed apprezzato dai suoi studenti, quali che fossero le loro opinioni politiche.
Oggi invece mi concentrerò sul contributo di Aldo Moro al processo di integrazione europea sotto uno specifico profilo, come dirò a breve. La data del 9 maggio, infatti, per chi vi parla ha un plurimo significato.
Dal 1978, esattamente oggi da 47 anni, ricorda a me, come certamente a voi tutti, la mattina di quel martedì in cui a Roma, in via Michelangelo Caetani, nella Renault 4 rossa fu ritrovato il corpo di Aldo Moro, sequestrato 55 giorni prima dalle Brigate Rosse.
Tuttavia, nell’ambito del processo di integrazione europea, la data del 9 maggio, ricorda quel giorno del 1950, nuovamente un martedì, in cui l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman, nel corso di una conferenza stampa convocata al Quai d’Orsay, lesse la celebre dichiarazione, che prefigurava la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la CECA, successivamente istituita dal trattato di Parigi del 1951. Ed oggi ricorre il 75° anniversario della dichiarazione.
L’idea di scegliere il 9 maggio per simboleggiare la fondazione dell’integrazione comunitaria fu fatta propria inizialmente dalle istituzioni comunitarie (decisione 7 maggio 1962 dei Capi di Amministrazione e regolamentazione relativa alla fissazione dell’elenco dei giorni festivi dei funzionari delle Comunità europee del 17 novembre 1966, adottata a seguito del comune accordo delle istituzioni).
Nel 1975, il presidente francese Giscard d’Estaing, in occasione del 25° anniversario della dichiarazione Schuman, propose agli altri capi di Stato e di governo di istituzionalizzare la giornata come festa dell’Europa, ma il suggerimento cadde nel nulla. L’idea fu ripresa, dieci anni dopo, da un italiano, il parlamentare europeo Pietro Adonnino, nella relazione definitiva del Comitato “Europa dei cittadini”, da lui presieduto. E al Consiglio europeo di Milano del 28-29 giugno 1985, la caparbietà di Bettino Craxi e l’abilità diplomatica di Giulio Andreotti, rispettivamente presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, riuscirono a far confermare il 9 maggio quale Giornata dell’Europa.
Tuttavia, quando la Giornata dell’Europa s’era ormai radicata, la legge 4 maggio 2007, n. 56, scelse il medesimo 9 maggio come “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice”.
La scelta fu consapevole. Era già nel disegno di legge Rossa e altri (Atto Senato n. 1003 del 20 settembre 2006). E la data fu mantenuta durante l’iter parlamentare, respingendo, dichiarando preclusi o trasformando in ordini del giorno gli emendamenti volti ad indicare numerose altre date, fra le quali menziono soltanto il 16 marzo, data dell’eccidio di via Fani e del rapimento di Moro.
Anzi, al riguardo, spiace rilevare che, durante tutto l’iter della legge n. 56 del 2007, nessuno tra i numerosi parlamentari che parteciparono ai dibattiti in Commissione Affari costituzionali al Senato o nelle Commissioni e in Assemblea alla Camera abbia fatto presente la coincidenza del 9 maggio con la Giornata dell’Europa.
Personalmente, per ricordare le vittime italiane del terrorismo, avrei preferito che la scelta fosse caduta sul 16 marzo, data che avrebbe sicuramente accomunato Aldo Moro ai 5 uomini della sua scorta, servitori dello Stato caduti nell’adempimento del dovere, ai quali Moro era affezionato come un padre o un fratello maggiore. Scegliere il 16 marzo avrebbe anche evitato, soprattutto in Italia, la coincidenza con la festa dell’Europa.

3. Come anticipato, oggi vorrei ricordare il contributo di Aldo Moro all’integrazione europea, concentrandomi sul momento più rilevante che lo vide protagonista dal punto di vista democratico, cioè la decisione di procedere all’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo.
Rammento che nei trattati istitutivi della CECA del 1951 e della CEE e dell’Euratom del 1957 si prevedeva che l’Assemblea unica delle dette Comunità elaborasse un progetto in vista della successiva approvazione all’unanimità da parte del Consiglio dei ministri. Nonostante che il Parlamento vi avesse proceduto fin dal 1960 (progetto Dehousse), la questione non aveva fatto passi avanti. Gli stessi federalisti (fra cui gli italiani Altiero Spinelli e Mario Albertini) inizialmente non erano favorevoli. Essi sostenevano che battersi per l’elezione di un Parlamento europeo senza poteri non avrebbe reso un buon servizio all’idea europea e alla democrazia.
Moro, tuttavia, non condivideva questa impostazione. Sottolineò infatti a più riprese la necessità di introdurre l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, ribadendo questa richiesta, tra il 1963 e il 1968, in tutti i discorsi programmatici tenuti di fronte alle Camere per la presentazione dei suoi primi tre governi.
Inoltre, il governo Moro I, nel febbraio 1964, fece presentare dal ministro degli Esteri Giuseppe Saragat al Comitato dei rappresentanti permanenti delle Comunità, un progetto di riforma del Parlamento europeo, in cui si prevedeva che, a partire dal 1° gennaio 1966, data di inizio della terza fase di attuazione del Mercato comune, il numero dei delegati a Strasburgo fosse raddoppiato e che la metà di essi venisse eletta a suffragio universale.
La questione, tuttavia, non era ancora matura essendo la maggioranza degli Stati membri, con in testa la Francia, decisamente contraria. Al riguardo Moro segnalò che “non pochi erano coloro che avevano ragione di temere proprio quello che i federalisti avevano motivo di sperare: e cioè che un Parlamento europeo, eletto a suffragio universale, e così dotato della forza propria della rappresentanza popolare diretta, avrebbe finito col conquistare le competenze proprie del regime di democrazia parlamentare travolgendo gli ultimi arroccamenti degli Stati nazionali”.
Consapevole tuttavia dell’importanza dell’elezione diretta Moro cercò alleanze fra i partner comunitari, coltivando fra essi soprattutto la Germania, tanto da farne esplicita menzione, nel gennaio 1964, nei colloqui avuti come presidente del Consiglio con il cancelliere Ludwig Erhard, in visita ufficiale a Roma. Questo orientamento venne ribadito, nel dicembre 1969, in vista del Vertice dell’Aia, nei passi compiuti dalla Farnesina, guidata da Moro, nei confronti del governo di Bonn.
Ancora, nella riunione dei ministri degli Esteri della Comunità, svoltasi a Lussemburgo nel maggio 1972, Moro indicò come traguardo finale da raggiungere la costruzione di una federazione europea e, come obiettivo immediato e improcrastinabile, l’ampliamento dei poteri e delle competenze del Parlamento europeo e la sua elezione a suffragio universale.
Nell’imminenza poi del Vertice di Parigi dell’ottobre 1972, in un articolo pubblicato il 15 ottobre 1972 sul quotidiano Il Giorno, Moro indicò un chiaro progetto riformatore per le Comunità. In particolare sottolineò che “Anche il campo istituzionale, sia pure con qualche spiegabile cautela, è materia sulla quale il Vertice dovrà intrattenersi. Non rinunceremo certo alla nostra prospettiva di sviluppo in senso federale, ma non è di questo, lo sappiamo, che a Parigi ci si occuperà. Conosciamo le posizioni francesi ed il pragmatismo britannico; sappiamo cosa possano pensare su questi temi Danimarca ed Irlanda. Ma non si può evitare di fare dei passi nella direzione giusta. E ciò vuol dire tra l’altro rispettare le competenze della Commissione, quelle che emergono non solo dalla lettera dei Trattati, ma dal significato profondo dalla filosofia implicita di questa istituzione. Essa, a dispetto della derivazione dei suoi membri, non è a struttura nazionale, ha modi propri di funzionamento, ha potere di iniziativa e risponde di fronte al Parlamento. Se così è nella forma, bisogna che sia così nella sostanza e che questa indicazione sia ben presente. Benché per gradi si deve camminare verso un Governo europeo, almeno per quelle competenze che all’Europa Unita saranno riservate. Correlativamente i modi di funzionamento delle rappresentanze degli Stati membri dovranno essere riesaminati. Al suo posto eminente bisogna sia il Parlamento con accresciute competenze in materia legislativa e di bilancio e finalmente con una diretta e significativa base popolare. Francamente non riteniamo che un tema come questo possa essere tenuto semplicemente, come all’Aja all’ordine del giorno.”
Come noto, la situazione mutò soltanto al Vertice dei capi di Stato e di governo tenuto a Parigi nel dicembre 1974 quando il presidente Valéry Giscard d’Estaing, ottenuta l’istituzionalizzazione del Vertice, ridenominato Consiglio europeo, rilanciò il tema delle elezioni europee che proprio la Francia aveva bloccato per un ventennio. Nel comunicato finale comparve infatti un impegno per le elezioni dirette con una precisa tempistica. Vi si legge che “l’obiettivo fissato dal trattato dell’elezione a suffragio universale dell’Assemblea dovrebbe essere realizzato il più presto possibile. Su questo punto, essi attendono con interesse le proposte dell’Assemblea, sulle quali si augurano che il Consiglio deliberi entro il 1976. In questa ipotesi, le elezioni a suffragio universale diretto dovrebbero tenersi a partire dal 1978»: proposta dell’Assemblea e delibera del Consiglio nel 1976 in vista delle elezioni nel 1978.”

4. Nel cammino verso le elezioni dirette assolutamente cruciali furono il secondo semestre del 1975, nel quale l’Italia ebbe la presidenza pro-tempore del Consiglio delle Comunità e i due semestri del 1976.
Rammento che a Roma, dal novembre 1974, Moro guidava il suo quarto governo, una coalizione composta dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Repubblicano Italiano, con l’appoggio esterno dei socialisti, dei socialdemocratici, della Südtiroler Volkspartei e della Union Valdôtaine. Determinante per il raggiungimento del risultato furono tre momenti.
In primo luogo, nel Consiglio europeo di Bruxelles del luglio 1975, sotto presidenza italiana, Moro non solo insistette sull’urgenza di dar seguito alla decisione di procedere sulla via dell’elezione diretta del Parlamento, sulla base della proposta che l’istituzione aveva approvato nel gennaio 1975 (progetto Patijn). A tal fine, il successivo 24 luglio fu istituito un gruppo di esperti che fu guidato, nel semestre di presidenza italiana, da Antonio Maccanico, allora vice segretario generale della Camera dei deputati.
In secondo luogo, il Consiglio europeo di Roma, a Palazzo Barberini, dell’1-2 dicembre 1975, presieduto da Moro che, nella seconda giornata, per superare il dissenso di Danimarca e Regno Unito, con uno strappo all’abituale metodo consensuale, mise la questione al voto a maggioranza qualificata riuscendo a far fissare per le elezioni il periodo maggio-giugno 1978.
In terzo luogo, al Consiglio europeo di Lussemburgo dell’1-2 aprile 1976, fu proprio Moro a bloccare la proposta di Giscard d’Estaing, già accolta dalla Germania e dai Paesi del Benelux, volta a bloccare la composizione del PE a 198 membri. Lo fece, con l’accordo del Regno Unito, con una posizione a dir poco lungimirante ed anticipatrice, in quanto nel successivo Consiglio europeo di Lussemburgo del 12-13 luglio 1976 – al quale Moro partecipò con il ministro degli Esteri Mariano Rumor, pur se il suo V governo era dimissionario – maturò l’accordo sul numero complessivo dei seggi, portato a 410, con l’assegnazione di 81 parlamentari ai quattro Stati più grandi (Francia, Germania, Italia e Regno Unito).
Cosicché la decisione e l’atto relativi all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo a suffragio universale diretto vennero firmati a Bruxelles il 20 settembre 1976 nella riunione del Consiglio dei ministri degli Esteri.

5. L’europeismo di Moro e la sua concezione del ruolo del Parlamento europeo sono noti. Ricevendo a Palazzo Chigi, ai primi di ottobre 1975, il primo ministro belga, Leo Tindemans, incaricato di redigere una relazione sull’Unione europea commissionatagli dal Vertice di Parigi del dicembre precedente, Moro nella duplice veste di presidente del Consiglio italiano e di presidente pro-tempore del Consiglio delle Comunità confermò che “l’Italia è favorevole all’elezione del parlamento europeo a suffragio diretto ed universale. Bisognerà poi allargare i poteri sia del Parlamento come della Commissione avviando un processo in cui si armonizzino poteri e competenze al fine di realizzare veramente la base dell’unità europea. In questa attribuzione di poteri e competenze va compreso anche il Consiglio dei ministri”.
Per quanto riguarda specificatamente il Parlamento prospettò la possibilità che esso potesse essere bicamerale: un’assemblea eletta a suffragio diretto in rappresentanza dei popoli ed una camera degli Stati alla quale attribuire il potere dell’attuale Consiglio europeo. Infine sottolineò che il punto di arrivo avrebbe dovuto essere strettamente politico. Vi è – disse- “l’esigenza di realizzare un insieme di Paesi che si uniscono al fine di esprimere una volontà unica sul terreno politico e che abbiano quindi una sola voce. Solo così l’Europa unita potrà influenzare il contesto politico mondiale”.

6. La proposta di legge di ratifica dell’Atto relativo all’elezione diretta del Parlamento europeo fu approvata dalla Camera quasi all’unanimità, con 384 voti favorevoli (dal PCI all’MSI) e 16 contrari su 400 presenti e votanti. Gli unici a votare contro furono i membri del Gruppo Partito di unità proletaria per il comunismo – Democrazia proletaria. Al Senato il testo fu approvato a larga maggioranza il giorno prima del Consiglio europeo di Roma celebrativo dei vent’anni dei Trattati CEE. Il Parlamento italiano, come aveva auspicato Moro, fu il primo a ratificare l’Atto di Bruxelles, con la L. 150/1977, anche se poi fu tra gli ultimi ad adottare la relativa legge elettorale, cioè la legge 24 gennaio 1979, n. 18.
Moro, ormai solo deputato e componente della 3a Commissione “Affari Esteri” della Camera oltre ad essere il presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, chiese ed ottenne di essere il relatore del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica in prima lettura alla Camera. Durante i lavori parlamentari, tra il novembre 1976 ed il febbraio 1977, Moro cercò il più ampio consenso possibile, tenendo conto delle le diversità fra le forze politiche sulle tematiche europee.
La sua visione sul Parlamento europeo eletto direttamente emerge nitidamente dalla sua relazione al disegno di legge presentata alla presidenza della Camera il 31 gennaio 1977.e dalla sua replica nel dibattito parlamentare.
Della relazione piace ricordare un paio di passaggi. Il primo è quello nel quale Moro rilevò che “la prospettiva di un’Europa unita emerse nel Manifesto di Ventotene (giugno 1941) come reazione al nazionalismo fascista. E l’Europa post-bellica, pensando all’avvenire dopo la vittoria sulla dittatura, andò maturando, per opera di uomini illuminati e di partiti democratici, la sua vocazione ad una Europa unita, anche se ovviamente con diverse aspirazioni e configurazioni”.
Il secondo è quello nel quale Moro osservò che “solo la costituzione di un organo dotato di piena rappresentatività democratica avrebbe consentito di realizzare il salto di qualità vagheggiato dai negoziatori dei Trattati quando introdussero la disciplina comune dell’elezione a suffragio universale diretto”. Invero, per Moro, l’elezione diretta costituiva “un punto essenziale per il superamento della sovranità nazionale a vantaggio di una unità sovranazionale nella quale l’Europa, salvando i valori essenziali della sua tradizione e riscattando i momenti più tristi della sua storia, potrà trovare la propria identità e divenire veramente protagonista della politica mondiale” Auspicio visionario e purtroppo non ancora realizzato in quanto la nostra Unione europea è una potenza economica affetta da nanismo politico, soprattutto con riguardo alla politica estera.
Nella replica in qualità di relatore alla Camera, nella seduta del 15 febbraio 1977 Moro affermò che “Vi è una vocazione –europea ‘connaturale al popolo italiano. Credo si debba sottolineare (non so in quale misura, ma certamente in larga misura) che nelle aspirazioni italiane sull’Europa vi è una autentica vocazione federalista. Su questo punto evidentemente non tutti si sono pronunciati. Quindi non è lecito dire, per questo, quello che diciamo per quanto riguarda l’atto da approvare e la generale vocazione europea; ma credo sia comunque largamente diffuso in Italia il senso che il punto finale, lo sbocco naturale del processo di unificazione deve essere, ovviamente per tappe – per molte tappe intermedie – uno Stato federale. Questa del resto è stata sempre la posizione assunta dai Governi italiani, estremamente duttili, come era necessario ogni qualvolta si trattava di trovare una convergenza di vedute con altri paesi, sempre pronti ad accogliere le tappe intermedie, ma sempre fermi nel dichiarare, valga quel che valga, che per noi la meta è lo Stato federale”.

7. L’unità dell’Europa rappresenta dunque un crocevia decisivo nel disegno di Aldo Moro. Non mi pare un caso che il suo nome figuri come ministro della Giustizia tra i ministri concertanti il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati di Roma del 25 marzo 1957 (Atto Camera n. 2814 presentato dal Governo all’indomani della firma). Il potenziamento del carattere democratico delle sue istituzioni – di cui l’elezione diretta del Parlamento Europeo è stata la premessa – era concepito dentro un processo di allargamento delle basi popolari. La forza di un’istituzione – questa è una lezione attualissima di Moro – è fortemente connessa con la sua dimensione democratica e con la sua capacità di inclusione.
Moro, infatti, è stato un convinto europeista, un ostinato fautore dell’unità del vecchio continente, ha considerato l’integrazione dell’Europa sul piano economico e monetario non come un punto d’arrivo, bensì come una tappa intermedia verso una meta giudicata necessaria e irrinunciabile: la costruzione di una federazione europea, vista come il frutto di una collaborazione sempre più stretta in campo politico tra i Paesi delle Comunità e di una progressiva evoluzione delle istituzioni comunitarie in senso sovranazionale, attraverso il graduale trasferimento a quest’ultime dei poteri e delle competenze statali.
Già nel marzo 1966, presentando alla Camera il suo terzo governo, gli affidò come compito prioritario di contribuire a «realizzare l’integrazione economica quale premessa dell’unità politica dell’Europa». Parole significative, se si pensa che nel secondo semestre dell’anno precedente c’era stata la crisi determinata dalla sedia vuota della Francia al Consiglio comunitario, di cui l’Italia al tempo aveva la presidenza pro-tempore e si era fatta carico di una sapiente mediazione condotta proprio da Moro e dal ministro degli Esteri Amintore Fanfani.
Moro era consapevole che un Parlamento democraticamente eletto avrebbe progressivamente rafforzato i propri poteri, come infatti è avvenuto nella realtà. Diceva Moro: “Se non si avvicina il Parlamento europeo, con i suoi poteri e con le sue decisioni, alla volontà popolare, l’Europa non potrà mai decollare in maniera compiuta e totale”.
È segno – aggiungeva – che “la nostra opinione pubblica e quella europea -hanno colto il valore emblematico di questa scelta, cioè di questo dare la parola – come ora potrà avvenire – al popolo europeo: il fatto che per la prima volta si possa parlare di un popolo europeo che si esprime, anche se con strumentazioni elettorali diverse, nello stesso tempo per le elezioni e per la sua rappresentanza. Io direi che questo è il dato fondamentale: il fatto che si sia dinanzi ad una scelta popolare, che i cittadini europei possano dire la loro parola e possano decidere in ordine alla loro rappresentanza”.
Il contributo di pensiero e di azione di Moro alle elezioni dirette del Parlamento europeo, come ho cercato di porre in luce, è stato fondamentale. Per questo, nel centenario della sua nascita, a Moro è stata intitolata un’ampia sala (la 3G2) nel Palazzo Altiero Spinelli del Parlamento europeo a Bruxelles.
Di quella occasione mi piace ricordare – e chiudo – il messaggio del presidente Sergio Mattarella che ha descritto Moro come «europeista tenace, dotato di visione ampia», che «pensava all’Europa unita come fattore di equilibrio internazionale e come motore di cooperazione, di solidarietà, di pace», ricordando che Moro aveva invocato l’«Europa politica quando era ancora presente soltanto la Comunità Economica».

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