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Ascesa e caduta dei Cinque Stelle, la lezione da imparare

Antonio Preiti lunedì 6 Gennaio 2020
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di Antonio Preiti

 

Se guardiamo allo sbriciolamento del Movimento Cinque Stelle nella cronaca politica, non ne ricaviamo niente: tutto sembra modesto, insensato, pieno di personalismi e sprovvedutezze. Sembrano bendati nel buio, apparentemente senza via d’uscita. Se invece lasciamo la cronaca, e cerchiamo di capire come ha fatto un Movimento in maniera del tutto inedita ad affermarsi come il primo partito politico italiano per poi disintegrarsi in meno di due anni, allora la cosa si fa interessante.

 

Il rapporto tra “attori” e “pubblico”

La politica non è solo un palcoscenico con gli attori che recitano e il pubblico che può solo applaudire o fischiare (è anche questo, intendiamoci), ma è una commistione permanente tra pubblico e attori, dove alla fine, a guardarci bene, sono piuttosto gli attori a obbedire al pubblico che non il contrario. Diciamolo meglio: i leader agiscono (questa è la loro natura) e chiedono il consenso per agire più fortemente; il pubblico, cioè gli elettori, non sono però una “tabula rasa”, ma hanno opinioni, valori, emozioni, insomma hanno i loro obiettivi e per raggiungerli usano i leader. Alla fine è così. Il caso del Movimento Cinque Stelle è lampante.

Beppe Grillo comincia la storia infiammando i teatri con la maestria dell’attore (questa volta in senso proprio) sostanzialmente con un giro di ragionamento molto elementare e molto potente (le due cose difficilmente si possono scindere): siamo governati da idioti (comprendendo tutta la classe dirigente), mentre il mondo propone soluzioni semplici che nessuno vuole adottare. Perché? Perché sono tutti ladri. Questo è il nucleo viscerale e potente del discorso. Non importa, ad esempio, che all’inizio i computer siano visti come il male assoluto e poi come la soluzione assoluta. Quel che conta è la contrapposizione tra il popolo (inteso non in senso sociologico, ma come l’insieme delle persone che non ragionano da istituzione) e le élite.

 

Il governo del “popolo”

Dietro e insieme a questa onda, messa insieme dalla domanda di “onestà”, emozionale, viscerale e imperterrita nella volontà di non guardare dentro ai problemi, ma dentro a chi li governa, è cresciuta l’ipotesi di un universo politico completamente diverso da quello conosciuto: basta con la divisione tra destra e sinistra; basta (o quasi) con la rappresentanza parlamentare; basta con l’intermediazione politica; basta con la competenza. Un altro mondo è possibile, in cui il popolo governi direttamente, con i suoi “delegati della rivoluzione” e gli strumenti delle nuove tecnologie che hanno abbassato i costi e cambiato le modalità della partecipazione politica.

Semmai c’è stata questa intenzionalità, che non è da escludere a priori (almeno per alcuni), questo fiume della partecipazione motivata dalla liberazione dalla corruzione, sposata con l’uso di internet, non appena approdato al mare dei consensi, si è via via bloccato dentro una diga costruita con due blocchi tutt’altro che permeabili.

 

Una strada senza sbocco

Non appena al governo i Cinquestelle hanno dovuto capire che mentre sul richiamo all’onestà potevano avere un consenso senza limiti, non lo stesso era per le singole proposte di governo. Gli italiani, ancora impegnati a tornare ai livelli di produzione e reddito del 2008, non amano la decrescita felice. Gli attori che l’onestà aveva portato sul palcoscenico, trovano un pubblico che non ama la loro recita sull’economia.

Allo stesso modo, tutta l’enfasi sulla democrazia diretta, sulla possibilità che ogni cittadino partecipi alle scelte pubbliche, insomma l’approdo alla democrazia deliberativa, che ha padri e patrie tutt’altro che incolte (California, Svizzera) si è andata via via riducendo alla modesta e misteriosa piattaforma Rousseau. Se davvero si fosse inteso fare una trasformazione radicale della democrazia italiana, allora la piattaforma doveva essere controllata da terzi, o dal pubblico; essere organizzata in maniera che qualunque cittadino potesse utilizzarla; non essere legata a un singolo partito. Così non è stato e la democrazia deliberativa è diventata uno strumento di puro controllo orwelliano del partito di riferimento.

È stato così che quel serpeggiare di un nuovo modo di fare politica si è via via immerso in un terreno senza sbocco, via via meno significativo, meno potente, diventando semplicemente lo schermo di un modo di fare politica disarmante, senza alcun orientamento né politico né ideologico. Quale insegnamento ne traiamo? Almeno tre.

 

Ciclo politico, partecipazione e pedagogia

Se è vero che oggi con la ragione senza emozione non si va da nessuna parte, è altrettanto vero che l’emozione senza una ragione ha vita breve. Così i cicli politici diventano sempre più brevi, perché nascono dentro un’emozione collettiva, a cui se non viene data una base razionale (cioè obiettivi, visione, politiche) non restano che fiammate veloci a crescere e veloci a scendere. Per altro, questo stesso problema è presente, su basi completamente diverse, anche per la Lega;

Riconoscere che c’è un problema tutt’ora aperto sul come rivitalizzare la democrazia. Le forme-partito che abbiamo conosciuto non funzionano (quasi non esistono più) e le forme della partecipazione democratica sono quasi schizofreniche: da un lato l’intensa attività sui social media che si perde nell’attimo e dall’altro l’impossibilità di una partecipazione politica strutturata. Il leaderismo mediatico colma questo vuoto, ma è fragile, mutevole e non induce alla partecipazione in prima persona dei cittadini. I Cinque Stelle hanno presentato il problema, ma la loro soluzione si è dimostrata peggiore e più inefficace del male; ma il problema resta;

La politica come pedagogia non funziona più, ma la politica come mero rispecchiamento dell’emozione popolare sbatte contro il muro dell’inconcludenza, non appena si presenta un qualunque problema che non richieda solo affermazioni di principio, ma la sua soluzione. Se gli attori della politica (o almeno una loro parte) pretendono di insegnare (o peggio d’imporre) il loro stile di vita al pubblico che li guarda (e che possiede le chiavi del loro destino) andranno verso sconfitta sicura. Allo stesso modo, chi rispecchia senza condensare nulla, e senza farsi visione e guida dei cambiamenti sociali, viene sommerso dall’ondata emozionale successiva. Il modo nuovo di riconnettere élite e popolo ancora non è stato trovato.

Chi si aspettava dai Cinque Stelle un nuovo spettacolo, con gli attori che scelgono di stare tra il pubblico e non sul palcoscenico, promettendo un nuovo protagonismo del pubblico stesso, è rimasto deluso e anche di più. Adesso non si può tornare al teatro di prima, bisogna che nasca qualcosa di nuovo, altrimenti ci sarà persino chi sarà pronto a scavare ancora la scena del palco, illudendo e illudendosi, che se il pubblico starà più in alto deciderà di più… fino al prossimo giro.

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