di Tommaso Sacconi
Intervento all’Assemblea nazionale di Libertà Eguale, 18-19 gennaio 2025
Un modo molto comune per leggere i fenomeni politici, che spesso utilizziamo anche in questa sede, è quello del mercato: una domanda, rappresentata dagli elettori, con le loro preferenze sulle singole politiche, o con la loro identità su assi ben definiti, e un’offerta, rappresentata da partiti e leader. Questo schema è ovviamente una semplificazione, una mappa che appiccichiamo alla realtà e che ci serve per capirla meglio.
Non sempre funziona, a volte ci spinge a prendere alcune cantonate, come quando pensiamo che le preferenze siano esogene, siano lì fuori immutabili e che vadano solo lette. Oppure quando ci porta a semplificare eccessivamente gli assi con cui leggiamo i fenomeni politici. O ancora quando vediamo negli elettori individui puramente razionali, bene informati, che scelgono il loro pacchetto di policy preferito come i consumatori scelgono beni e servizi da comprare nelle fantasie dei manuali di microeconomia.
In ogni caso, questo modello ci è servito. Ci ha permesso di scoprire cose nuove, di vedere meglio alcuni fatti, di parlarne meglio.
Spesso, quando si parla di questa nostra area politica, i riformisti e i progressisti, si parla spesso di agenda di Governo, di offerta politica. Ci sono molte buone ragioni per farlo: il senso di responsabilità di chi desidera fare un buon servizio, rispondere a delle domande che vengono dalla società, ai problemi che vengono posti dal tempo. Una certa avversione all’ingenuità e alle dichiarazioni un po’ sterili che forze che a volte giudichiamo immature fanno. Un bisogno di costruire collaborazioni politiche tra attori diversi, definite da un’agenda condivisa, un’idea di Paese.
Nel fare tutto ciò, che è molto meritorio, a volte corriamo il rischio di trascurare la domanda, o meglio le domande, che, contraddittorie e confuse, vengono poste dalla società. Queste domande, in anni difficili a livello globale per le democrazie come quelli che stiamo vivendo, ci mettono in crisi, non sempre ci piacciono, a volte le giudichiamo con superficialità e frettolosamente. Ma meritano di essere affrontate a viso aperto. Altrimenti, qualsiasi offerta, qualsiasi agenda, qualsiasi programma, diventa sterile, un esercizio tecnico disincarnato.
Dalla mia prospettiva, c’è un forte sentimento che dobbiamo registrare, prima ancora del bisogno di sicurezza, di confini certi, di identità forti, oppure di protezione, categorie con cui a volte leggiamo il populismo e l’ascesa della destra. Tutto vero.
Però con queste letture non facciamo i conti con un altro elemento, che forse ci chiama in causa più direttamente, che è quello della sfiducia. Sfiducia nelle istituzioni, sfiducia nella politica, sfiducia (o ansia) per il futuro, sfiducia nell’azione collettiva, nell’organizzazione come strumento di risoluzione dei problemi, di miglioramento delle proprie condizioni di vita, di emancipazione individuale e collettiva.
Ogni tanto mi chiedo se abbiamo contributo a questo atteggiamento di sfiducia quando abbiamo dato l’impressione che la politica fosse solo tecnica, un ramo del sapere specialistico che risolve problemi sociali distanti, complessi e complicati, senza le persone che qui problemi li vivono sulla propria pelle. Quanto i nostri programmi, le nostre agende, sono state in grado di dare fiducia ai pezzi di società che volevano operare, organizzarsi socialmente e politicamente per migliorare le loro condizioni di vita?
Nelle contrapposizioni nei nostri campi e nelle nostre aree, siamo stati divisi dai metodi, dai programmi, dalle policy o dai “fini ultimi”, dall’obiettivo che davamo al nostro agire politico?
Molti grandi progetti riformisti del passato, da Turati a Blair, al netto delle valutazioni sugli effetti e sulla capacità di cambiare e incidere sulla realtà, avevano al centro un progetto di emancipazione collettiva e di riconoscimento forte della dignità della persona. Quanto riusciamo a mettere questo progetto al centro dei nostri programmi e quanto invece ci sentiamo schiacchiati da una gestione dell’esistente, una manutenzione del sistema che non sembra essere in grado di intercettare le domande e i bisogni delle nostre società?
Per i prossimi anni, per “preparare l’alternativa” come ci diciamo spesso, saranno importanti le formule politiche, l’unità, le coalizioni, sicuramente. Ma credo serva anche riconoscere ed affrontare questa sfiducia costitutiva nei confronti del futuro e nella nostra vita insieme, sfiducia che non si combatte solo con il suo contrario, fiducia, ma mi verrebbe da dire con qualcosa di più. La speranza.
Questa parola un po’ alta risuona sia nelle porte sante aperte a Rebibbia sia nei trattati dei marxisti eterodossi. Per noi, più prosaicamente, vorrebbe dire mettere al centro la capacità di immaginare il futuro senza ansia o angoscia, la possibilità di dare credito ai processi democratici e non solo alla delega democratica, il riscoprire e rinnovare l’azione collettiva, secondo le diverse forme che ci saranno richieste.
Tra i temi che spesso affrontiamo in questi contesti, mi interpella molto il tema della base sociale. Riprendendo anche la relazione iniziale di Claudia Mancina, sappiamo che non possiamo pensare la base sociale come 100 anni fa: i partiti non rappresentano meccanicamente classi o gruppi sociali, ed è giusto ricordare come la base si costruisca con scelte politiche, che non basta solo leggere la società come se avesse preferenze e interessi fissi. La politica non è solo rappresentanza di microinteressi, ma capacità di articolare e rappresentare interessi diffusi, capacità che si fa appunto avendo un orizzonte. Resta però necessario chiedersi dove guardare, quali sono le realtà, i gruppi e le forze vive che già operano nella società con cui è necessario confrontarsi.
Qualche anno fa, quando io ero troppo piccolo credo anche solo per leggere, in contesti simili a questo si parlava di alleanza dei “produttori”. Intuizione felice, che credo abbia portato a qualche significativa vittoria. Il contesto temo sia cambiato: la coalizione dei produttori si è ristretta numericamente, complice la transizione demografica, la transizione ecologica, la divergenza tra settori industriali e le difficoltà della manifattura in tutte le regioni fuori dalla locomotiva veneta-emiliana. Non credo basti ricostruire quella coalizione, servirà ampliarla.
Quali sono i blocchi sociali che possono essere allora essere messi insieme?
Anche se faccio un po’ fatica con queste categorie, alcuni spunti per tornare ad aggregare e articolare interessi diffusi nella società, cercare interlocuzioni con pezzi del Paese.
Alle sfide della destra populista in Europa e nel mondo si risponde sicuramente con le politiche, ma anche con qualcosa altro, mi verrebbe da dire con certi stili.
Il primo per combattere l’astensionismo, credo sia pre politico, ed è la credibilità: credibilità intesa o alimentata anche dalla prossimità, dalla capacità di stare nella società e non soltanto leggerla dall’alto.
Secondo: un criterio valoriale, anche qui prepolitico. Mettere al centro la dignità della persona, dei suoi bisogni e delle sue domande fondamentali. I cittadini non possono essere considerati solamente come usufruitori finali, di cui presupponiamo le domande, ma vanno ascoltati, messi al centro dei processi.
Terzo: il coraggio. Coraggio nell’affrontare alcune battaglie impopolari, che non ci saranno utili nell’agenda di governo, ma che sono al momento minacciate da forze e tendenze che restringono gli spazi di libertà per molte persone: carcere, migranti, marginalità sociale ed economica
Infine: maggiore fiducia nelle capacità della società, nelle azioni collettive, nelle deliberazioni pubbliche, fiducia nei processi, nelle organizzazioni, nelle associazioni, nel terzo settore, ma anche nella capacità della politica e dei partiti di articolare questi interessi, queste battaglie, questi mondi all’interno delle istituzioni. Il terzo settore, l’associazionismo, nel nostro Paese rappresenta non solo un facile bacino di voti, ma una miniera di competenze, ed esperienze, di classe dirigente, di saperi e di credibilità che può essere rimesso in circolo nel circuito democratico rappresentativo.
Alcuni di questi spunti sono stati contraddittori, me ne rendo conto. Però credo possano essere un piccolo punto di partenza per affrontare di petto il problema delle forze sociali con cui dobbiamo fare i conti per poter proporre un’alternativa, che sia credibile non solo per la qualità delle sue proposte di policy, ma soprattutto per la capacità di intercettare le speranze di una parte maggioritaria del Paese.
Tommaso Sacconi studia scienze politiche alla Scuola Superiore Sant’Anna e all’Università di Firenze. È membro del think tank Agenda, con sede all’Enciclopedia Treccani.