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Carceri, che cosa insegna il caso Alemanno

Danilo Di Matteo giovedì 3 Luglio 2025
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di Danilo Di Matteo

 

 

È piuttosto rassicurante concepire la società come caratterizzata dal “centro” e dalle “periferie”. Luoghi di sofferenza o di marginalità popolati dagli esclusi, dagli ultimi, dagli “eccentrici”: prostitute e folli, carcerati e nomadi, tossici e senza tetto e così via. E tuttavia la realtà è assai più complessa e variegata, come mostrato da Salvatore Veca rifacendosi all’idea di “capacità” di Amartya Sen. Ciascuno/a di noi, infatti, in momenti diversi o persino nello stesso istante può essere “agente morale” e “paziente morale”. In questi giorni, poniamo, una bronchite mi rende un paziente (non solo morale, bensì fisico); al tempo stesso continuo a esercitare la professione di terapeuta. Ed è eloquente la vicenda di Gianni Alemanno, già persona di governo e primo cittadino della capitale, oggi recluso a Rebibbia.

Non si tratta solo dei “rovesci di fortuna”, di accidenti, di paradossi e bizzarrie o, più banalmente, di “mobilità sociale”: è la condizione esistenziale di noi umani, da sempre. Il neonato è fragile, proprio come il novantenne. E ciascuno di noi è stato un neonato e ha una probabilità non trascurabile di divenire novantenne. Più in generale, le nostre vite rappresentano un alternarsi della condizione di “agenti” e di “pazienti”. Sarebbe illusorio esorcizzare il timore, o l’angoscia, della “caduta” relegando “i diversi”, “i deboli” in un mondo separato e parallelo. Mai come in questo caso, infatti, l’altro, il debole, il diverso sono in noi. Meglio: siamo noi, magari proprio ora.

Da qui una ragione in più per sentire di doverci battere per una società solidale, pronta a sostenere “i minimi”, tale da tradurre astratte “opportunità” in concrete “capacità” di vita, lavoro, studio, crescita individuale e collettiva. Si tratta, insomma, di far leva anche su un sano egoismo e sul nostro “Dna egoista”: aiutare l’altro vuol dire aiutare me stesso o i miei consanguinei, e i miei amici. Insomma, è da invocare e praticare quel socialismo leopardiano della Ginestra che tesse una trama di sostegni, di affetti, di legami reciproci tra gli umani (e non solo: il discorso andrebbe esteso agli altri animali e alle piante, persino ai minerali), provando in ogni modo a contrastare solitudini, segregazioni, esclusioni. Che si tratti di lager, carceri, ospedali, scuole e di altri luoghi di lavoro e di sofferenza, magari delle nostre stesse abitazioni.

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