di Claudia Mancina
Si può credere nella politica? E’ una domanda oggi molto diffusa. Il crescente astensionismo in tutte le elezioni ci dice che questa domanda c’è e non ha una risposta positiva. Il Partito democratico dovrebbe anzitutto recuperare quel patrimonio di fiducia e di speranza che era proprio del centrosinistra, che si è vissuto nella nascita dell’Ulivo, e che è stato poi disperso dalle vicende complicate del partito: la successione dei segretari, spazzati via dalle divisioni interne, le scissioni, l’incapacità di reagire al populismo montante. Eppure l’obiettivo del Partito democratico era quello di offrire al paese una forza autenticamente progressista, riformista ed europeista, come indicava il Manifesto dei valori del 2008. C’è stata una difficoltà a svolgere questa funzione, che perdura ancora oggi. Sembra esserci una fragilità di fondo del partito democratico. Qualcuno l’ha attribuita alla sua nascita per fusione di due tradizioni politiche diverse: un amalgama mal riuscito, si è detto. Ma questa è una lettura semplicistica.
Sono molto d’accordo con la ricostruzione fatta da Stefano Ceccanti, che segnala limiti e falle di ambedue le tradizioni politiche. Peraltro ambedue minoritarie nel loro contenitore di provenienza.
Va notato che queste due tradizioni hanno funzionato sostenendo ciascuna l’aspetto ambiguo, quando non decisamente sbagliato, dell’altra. Questo è vero soprattutto sulla questione della pace o più in generale della politica internazionale. C’è stata una saldatura tra il pacifismo cattolico – sincero, in verità, ma fortemente ispirato da pulsioni utopistiche – e il pacifismo comunista, meno sincero, perché di fatto espressione dello schieramento con l’Unione sovietica: contro la Nato, contro la difesa europea. La saldatura avveniva grazie al comune antiamericanismo, che è una vera malattia del senso comune italiano. Che risale agli anni Trenta: non è questo il luogo, ma sarebbe interessante andare a vedere la trattazione acuta e ben poco ideologica che fa Gramsci dell’americanismo.
Un altro elemento di saldatura, come ricorda Ceccanti, è la comune diffidenza e antipatia per il Partito socialista, unico partito che, con tutte le sue contraddizioni, tentò una modernizzazione sia di sistema che di cultura.
Se guardiamo dunque al Pd, vediamo che queste eredità pesano. La visione del mondo statalista, assistenzialista se non pauperista, terzomondista, antitecnologica, conservatrice in campo istituzionale, di fatto populista, ha finora sempre prevalso su quella che punta sulla crescita, sull’innovazione, su un mercato regolato ma non ingessato, riformatrice sia in campo economico che istituzionale, che viene accusata di essere neoliberista ma in realtà è autenticamente riformista. Sono due visioni molto distanti, che producono politiche diverse. Una evoluzione positiva della cultura politica del Pd richiedeva di affrontare i nodi con una elaborazione culturale, (per la quale sarebbe stato utile riferirsi anche alle passate proposte dei socialisti, oltre che alle Tesi dell’Ulivo). Ma non c’è stata nessuna elaborazione, e il Pd è rimasto in preda di spinte diverse e contrastanti; di fatto è rimasto un partito incompiuto, e, proprio perché incompiuto, finora incapace di mettere in campo una vera alternativa di governo. Le alleanze sono certamente necessarie, ma non possono surrogare la capacità di pensiero e di elaborazione politica, che deve venire prima di qualsiasi alleanza.
Da dove riprendere il filo, per tentare di superare questa incompiutezza e sviluppare un partito che sia veramente in grado di prospettare un progetto per il paese, cioè di essere una sinistra di governo?
Le questioni principali sono quelle indicate: le riforme istituzionali e la politica internazionale. Sono i due punti più deboli dell’iniziativa dell’attuale segreteria. Bisogna notare che la segretaria si propone esplicitamente di rompere con il passato del Pd, affermando spesso che lei “non c’era”. Come se la vita di un partito potesse consentire cesure di fondo, cesure identitarie. Rompere la continuità vitale del Pd è un fatto grave, che non può non allontanare dal partito consenso e sostegno. E non è certo senza relazione con questo il fatto che il Pd resta inchiodato al suo più o meno 20% e non riesce ad andare oltre. Siamo tutti contenti della vittoria a Genova, città storicamente di sinistra tornata alla sua tradizione politica, ma pensare che questo sia un passo verso la vittoria alle politiche è un gioco illusionistico.
Vorrei indicare due altre questioni, oltre a quelle trattate da Ceccanti (sulle quali concordo con lui).
La prima è la questione della base sociale. Il Partito democratico non è un single issue party, come potrebbero essere i verdi, per esempio (se si occupassero seriamente di ecologia). E’ un partito nazionale, cioè un partito che ambisce ad avere una base sociale ampia e diversificata, a creare una alleanza politica tra ceti diversi, portandoli a collaborare in una prospettiva di crescita e di riforme. Come sono stati i grandi partiti nella storia della Repubblica: la Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partito socialista. Sottolineo che se questo è più normale per la Dc, che era programmaticamente interclassista, è però significativo che fu anche sempre (con Togliatti) la politica del Pci, che pure programmaticamente era il partito della classe operaia (ma non a caso si diceva più spesso dei lavoratori). Se oggi non ci sono più grandi partiti è anche perché si è rinunciato al compito di costruire una rappresentanza sociale, accontentandosi delle forme più superficiali di comunicazione che sono tipiche della vita contemporanea: quanto però questo modo di essere sia insufficiente, ce lo dice la crescente disaffezione alla politica e la volatilità dei consensi. Per svolgere un ruolo nazionale un partito deve sviluppare idee e visioni di prospettiva, che non siano solo espressione di una classe o di un punto di vista, ma siano tali da poter aggregare ceti diversi e diversi punti di vista.
In quest’ottica, la questione fondamentale oggi in tutto l’Occidente è quella dei ceti medi, impoveriti e spaventati dalla globalizzazione. Nelle analisi della vittoria di Trump negli Statu Uniti si è sottolineato che la globalizzazione ha prodotto una duplice frattura, quella economica ma anche quella culturale, che si esprime nella reazione identitaria. In questo quadro complesso si inserisce anche la razione insofferente e repressiva di fronte all’immigrazione.
Che cosa ha da dire il Pd a questi ceti, che sono persone che perdono il lavoro, famiglie che non hanno risorse per la casa o per gli studi dei figli? Sentiamo purtroppo un discorso pieno di luoghi comuni, senza nessun approfondimento: sulle diseguaglianze, che ci sono ma diventano un problema così lacerante quando gli strati sociali che stanno più in basso vedono il piano inclinato sotti di loro. Sulle energie rinnovabili (vedere cosa dice Chicco Testa sul punto). E sull’immigrazione. Su questo vorrei dire qualche parola di più perché è il tema che incrocia tutti gli altri.
Noi parliamo di integrazione, di formazione scolastica, di cittadinanza. Ed è giusto, è coerente con una sinistra democratica. Ma non ci poniamo il problema di come impedire e regolare l’immigrazione irregolare; di come evitare che coloro che sbarcano dai barconi o siano assorbiti dalla criminalità o siano accolti e mantenuti a spese dei cittadini, senza riuscire di fatto a espellerli. Noi ci facciamo carico, ed è giusto, di andare incontro alle sofferenze di questi che sono i più deboli ed emarginati. Ma non ci facciamo mai carico di vedere tutta la questione con gli occhi di chi abita nelle periferie e vede o teme il degrado e il pericolo. Non c’è solo un problema di inclusione, ma anche un problema di sicurezza: non volerlo vedere significa ignorare proprio la fragilità degli strati più esposti. Dobbiamo sapere che se non riusciamo ad affrontare in modo nuovo tutta la questione immigrazione lasciamo il consenso alla destra: come del resto sta avvenendo in tutti i paesi democratici, dall’Europa agli Usa.
La seconda questione è quella del lavoro. Non è certo l’obiettivo del salario minimo che fa una politica del lavoro oggi. Il problema del lavoro sono i salari bassi, che riguardano non solo i cosiddetti ultimi, ma per l’appunto i ceti medi, in tutta la loro stratificazione, dai più semplici impiegati a professionisti come i medici. Ma allora il nodo è la produttività, che è il grande problema dell’economia italiana da trent’anni. Una proposta politica di alternativa al governo attuale non può esaurirsi in proteste e denunce, ma deve fare emergere una politica industriale e della crescita. Una politica che richiede una alleanza dei produttori (per usare una vecchia espressione di Trentin) e scelte coraggiose anche sul tema dell’energia.
In questo quadro entrano i referendum sul lavoro. Che sono un equivoco politico, fanno credere che l’approvazione migliorerebbe la posizione dei lavoratori, ma non è così. I cambiamenti promessi non sarebbero miglioramenti ma peggioramenti. In particolare il primo quesito, che riguarda il reintegro per i lavoratori licenziati ingiustamente, non riporterebbe in vita l’art.18, come si fa credere, ma la legge Fornero. Più in generale, questi quesiti rispondono a un’idea irrealistica del mercato del lavoro, e rischiano di bloccare le assunzioni, soprattutto nel caso di ingresso nel lavoro. Si tratta in realtà di una vendetta retroattiva sulla legge renziana, che pure ha dimostrato di favorire le assunzioni, e anche specificamente le assunzioni a tempo indeterminato.
Quindi un’operazione politica, anzi politicistica, dal forte sapore populista, che sarà probabilmente vissuta come una resa dei conti dentro il Pd. E’ dunque anche una questione di dialettica interna. Per svolgere un ruolo nazionale, per essere sinistra di governo, un partito deve sviluppare idee e visioni di prospettiva, che sono vitali proprio perché diverse tra loro. Una sana dialettica interna non consiste nell’identificare idee della maggioranza e idee della minoranza, mettendo queste nell’angolo e considerandole estranee, ma nel metterle a confronto, stimolando la discussione e la ricerca. Un partito che non è in grado di fare questo impoverisce sé stesso e le proprie possibilità di vittoria.
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)