di Alberto Bianchi
La grande assente, nel conflitto tra Israele e Iran, è l’Europa come capacità tecnologica e militare e, dunque, potenza strategica.
Di fronte al conflitto Israele – Iran, l’Europa si muove, certo, ma senza essere in grado di svolgere un proprio ruolo strategico rilevante ed efficace. A Ginevra si riuniscono diplomatici di Francia, Germania, Regno Unito, Commissione europea ed inviati iraniani, vengono stilati comunicati, si invocano moderazione e dialogo. Ma il peso reale degli europei e dell’Ue in questa crisi è inversamente proporzionale alla gravità della situazione. L’Europa c’è, ma non incide.
Mentre Washington detta il ritmo con una politica estera fatta di ambiguità ed impulsi, l’Unione appare irrimediabilmente condannata a rincorrere. L’Amministrazione Trump, oscillante tra minacce e aperture lampo, ha reso chiaro che il canale privilegiato con Teheran passa per la Casa Bianca, non per Bruxelles. Così, ogni tentativo europeo di riannodare i fili della diplomazia sembra un esercizio simbolico, utile più alla coscienza che all’efficacia geopolitica. È amaro constatare ciò, per ogni sincero europeista, ma resta questo il quadro reale della situazione.
Nel frattempo, Israele prosegue nella sua strategia di deterrenza attiva, confidando nel sostegno americano. Anche quando l’Ue proclama il proprio sostegno al multilateralismo e alla sicurezza regionale, resta priva degli strumenti concreti – politico-strategici e, soprattutto tecnologico-militari – per imporsi come attore credibile nel conflitto.
L’assenza di una visione strategica condivisa porta ogni capitale europea a parlare una lingua diversa, spesso prigioniera di interessi economici e vincoli storici. Senza una politica estera realmente unitaria, l’Europa rimarrà un coro dissonante ai margini del grande teatro mediorientale. A questo nodo, si sta iniziando a dare una prima risposta mediante l’iniziativa coordinata di Francia, Germania e Regno Unito (assente grave l’Italia) nell’ambito della cosiddetta Coalizione dei Volenterosi, ma ancora molto lavoro c’è da fare in tale direzione.
Credo, però, che sia sul terreno più direttamente tecnologico-militare che l’Europa dimostri la sua fragilità d’incidenza nello scenario del conflitto Israele-Iran e, più in generale, del Medio Oriente. Per dirla in modo brutale: il dilemma che l’Europa si trova oggi ad affrontare, tra irrilevanza e politica di potenza, ha preso la forma di Fordow – il sito nucleare sotterraneo più importante della Repubblica islamica dell’Iran. L’Europa, non possedendo la bomba adatta a distruggerlo, ha dovuto lasciare spazio agli Stati Uniti che quell’ordigno hanno a disposizione nei loro arsenali militari.
E difatti, con l’operazione di bombardamento denominata “Martello di mezzanotte”, Trump ha attaccato il sito di Fordow con tre “bunker buster” GBU-57, bombe di profondità, nel cuore della montagna iraniana, a novanta metri di profondità. Per Israele, era l’obiettivo numero uno. Gli Stati Uniti hanno operato in tal senso.
Tale vicenda dimostra quanto l’Europa sia disarmata, in senso tecnologico-militare, perché non dispone di simili armamenti, ed in senso politico. Perché dotarsi di una simile capacità avrebbe significato per l’Europa non solo schierarsi dalla parte di Israele, offrendo a Tel Aviv la possibilità di colpire Fordow con mezzi europei, ma contemporaneamente e finalmente superare l’ambiguità diplomatica che da anni caratterizza la postura degli europei in Medio Oriente, ed assestare un colpo al tentativo dell’Amministrazione americana di ritornare ad un neo-bipolarismo di potenza Usa-Russia nella regione medio-orientale e nell’Altopiano sarmatico nel cuore dell’Europa.
Ma l’Europa è ancora una volta giunta in ritardo, in un teatro geopolitico infuocato come quello del Medio Oriente, per molti versi decisivo per gli equilibri mondiali. Non è ancora dotata di capacità tecnologiche e militari avanzate, non fornisce e non prende posizione. E così, mentre Washington e Tel Aviv hanno operato con bunker busters su Fordow e discutono di strategie di deterrenza, Bruxelles resta al margine, irrilevante, al più seduta intorno a tavoli di trattative diplomatiche piuttosto sterili nei risultati.
Il paradosso è evidente: l’Unione proclama il proprio impegno per la sicurezza regionale, ma non è disposta a pagare il prezzo politico e tecnologico-militare di una vera influenza. Non vuole alienarsi Teheran, non vuole seguire ciecamente Israele, e finisce per non contare per nessuno.
Fordow, in questo senso, è più di un obiettivo militare: è il simbolo di una sfida geopolitica e tecnologico-militare che l’Europa non ha ancora il coraggio di affrontare. Perché dotarsi di bombe di profondità e di altri analoghi armamenti tecnologicamente avanzati non è solo una questione di arsenale. È una questione di volontà.
Sessantacinquenne, romano, studi classici, lavora presso Direzione Trenitalia spa, gruppo Fs italiane. Sin da giovane, militante della sinistra: prima nelle fila della Federazione Italiana Giovanile Comunista (FIGC), poi nel PCI (componente migliorista), fino allo scioglimento del partito. Successivamente ha aderito al PDS, poi DS. Attualmente è socio ordinario di Libertà Eguale.