di Alberto Bianchi
Il quadro politico italiano si è arricchito di nuovi elementi con le recenti elezioni amministrative, che hanno visto il centro sinistra ottenere risultati significativi in diversi comuni. Il centro sinistra ha conquistato Genova e Ravenna. A Matera e Taranto, invece, si andrà al ballottaggio l’8 e 9 giugno.
Questi risultati attestano che c’è, se non altro da parte di un’area dell’elettorato italiano che si concentra nelle medie e grandi città metropolitane, una tendenza non dico al consenso per un’alternativa di governo organica di centro sinistra alla maggioranza di centro destra oggi al potere in Italia – per questo approdo sul piano nazionale ancora molta strada c’è da fare a sinistra – quanto meno, però, un’attenzione ad ipotesi di cambiamento politico, purché quest’ultime risultino credibili. Il Partito Democratico, in specifico, ha ottenuto un buon risultato a Genova, dove è stata la lista più votata con il 29,06% delle preferenze. L’affluenza complessiva si è attestata al 56,29%, in linea con la tornata precedente.
Questi dati rafforzano la necessità di una riflessione interna al Pd – per altro da tempo non più aggirabile, proprio a seguito di scelte della dirigenza nazionale del partito alquanto confuse e contraddittorie, soprattutto in tema di politica estera – sulla sua identità riformista e sulla capacità di aggregare ed allargare consensi attraverso una proposta politica chiara ed incisiva. La vittoria del centro sinistra in città chiave in questo turno di amministrative e la competizione aperta nei ballottaggi potrebbero rappresentare un’opportunità per ridefinire il ruolo del riformismo all’interno stesso del partito e della sinistra italiana.
Cosa vuol dire, difatti, essere un riformista oggi nel Pd? Su quali contenuti e con quali modalità di presenza ed azione si può esprimere chiunque voglia battersi, nel maggiore partito di opposizione della sinistra italiana, per una sinistra di governo? E prepararsi al meglio, così, per le regionali parziali del prossimo autunno e, soprattutto, per le politiche del 2027?
Dice bene, in tal senso, il direttore de “Il Mulino”, Paolo Pombeni, sul Foglio del 27 maggio, in merito ai dati dell’amministrative: “La preponderanza del centro sinistra nei maggiori centri urbani è data dalla presenza di forze centriste, che non sono soltanto i piccoli partiti centristi, ma è anche l’area riformista del Pd. È quella che sposta i voti rispetto al centro destra”.
“È anche l’area riformista del Pd…” – dunque – “… che sposta i voti rispetto al centro destra”. Questo è il punto. Ed ecco perché i suddetti interrogativi ritornano in evidenza nella vita interna di un partito che si definisce pluralista e democratico, quale è il Pd in realtà, naturalmente. Ma essi rivestono una portata ed un’urgenza nuove, poste non solo dai nodi che le amministrative lasciano in sospeso nel centro sinistra a livello locale anche dopo una tornata positiva di elezioni, ma in primo luogo dal “grande tumulto” dei cambiamenti storici che vivono oggi l’Italia, l’Europa, il mondo – ed in esso la sinistra socialista, liberale, cattolica, il Pse, il Pd.
C’è un punto di metodo, però, che va subito sciolto e chiarito, prima di ogni altro passaggio. Perché sollevare gli interrogativi suddetti qui, nel sito dell’Associazione nazionale “Libertà Eguale” e non piuttosto all’interno del Pd? La risposta potrebbe essere apparentemente semplice: perché non sono un iscritto a questo partito, pur essendo un simpatizzante partecipe e curioso di esso e delle sue scelte, auspicandone un’evoluzione saldamente riformista. Sono, invece, un socio di “Libertà Eguale”, che è una delle pochissime realtà e sedi politico-culturali, forse la più importante in Italia, in cui si ritrovano e possono confrontarsi liberamente tutti coloro che, convinti riformisti di diversa ispirazione, vogliono costruire una sinistra di governo. Sì, c’è pure nel Pd una componente che raccoglie dirigenti ed iscritti riformisti, ma sembra essere al più una nebulosa, un ente allo stato gassoso e spesso afona – ad eccezione di coraggiose prese di posizione individuali o di specifici ma momentanei raggruppamenti occasionali e monotematici – piuttosto che una corrente organizzata ed in grado di ingaggiare una battaglia politica nel partito.
Ha scritto al riguardo la professoressa Claudia Mancina – docente accademica di Etica all’Università “La Sapienza”, esponente politico del Pd – su “L’Altravoce – Il Quotidiano Nazionale”, il 17 maggio scorso, nell’articolo intitolato “Il risveglio dei riformisti”: nel partito “… c’è il timore di costituire una corrente, si dice. Ma sarebbe ora di sfatare questo tabù. Le correnti sono fisiologiche e necessarie in un grande partito; sono un fattore di chiarezza. Se, per l’appunto, propongono idee, visioni della società. Si teme che siano soltanto un traffico di posti e di incarichi? Ma questo è tanto più probabile quanto più le correnti sono sotterranee e non trasparenti. Divisioni esplicite e limpide sono invece un elemento di chiarezza, e portano un contributo al partito e alla sua capacità di aggregare consensi. Per questo il silenzio dei riformisti è anche un torto al partito, oltre che a loro stessi”.
Ed allora tentiamo di definire quelle che Claudia Mancina chiama le “… idee e visioni della società …” che devono fare di ogni corrente, ed in primo luogo di una corrente riformista, un fattore positivo e propulsivo della dialettica interna ad un partito. E si può ben dire che, in tal senso, i riformisti certamente non partono da zero, soprattutto perché vocati – per disposizione naturale oserei dire – a rapportarsi al senso del reale e, dunque, all’Italia per quello che è e non per quello che certuni presumono di percepire.
Due rapporti di centri di ricerca ed analisi sullo stato della società italiana sono apparsi nell’ultime settimane. Il primo è del Cida Censis – i cui dati ed interpretazioni sono stati pubblicati dai giornalisti Andrea Carli e Claudio Tucci sul Sole-24Ore del 22 maggio – che afferma che il ceto medio italiano, al quale due italiani su tre si sentono di appartenere, viva oggi un malessere diffuso, con riduzione del 45% dei consumi e forte spinta ai figli ad andare all’estero, perché teme che il futuro per i giovani in Italia peggiorerà. È significativo, però, che nel rapporto “… il ceto medio italiano, che è il punto di tenuta del Paese, non si definisce attraverso il reddito, ma attraverso l’identità culturale. Il 66% degli italiani si riconosce nel ceto medio, e per oltre il 90% ciò che conta davvero è il sapere, il livello di istruzione, le competenze acquisite. Ma questi valori non trovano più riscontro nella realtà economica. L’82% degli italiani che si autodefinisce di ceto medio denuncia che il merito non viene riconosciuto, che il capitale culturale non si traduce in una giusta retribuzione”.
Il secondo rapporto è quello presentato il 21 maggio dall’Istat sull’Italia del 2024, per il quale: il lavoro cresce di 352 mila occupati, il saldo primario torna in avanzo dopo 4 anni (da -3,6 a +0,4 per cento del Pil); diminuisce il lavoro precario (-6,8 per i contratti a termine, +3,3 per i contratti a tempo indeterminato); tra il 2019 e il 2024 il Pil reale è cresciuto del 5,6 per cento, contro il 3,6 della Francia e lo 0,3 della Germania; ed altri dati positivi per l’Italia. Resta il nodo storico grave, come sappiamo, di una produttività italiana molto bassa per ora di lavoro e per addetto rispetto alla media europea.
Questa è l’Italia reale su cui ragionare e per la quale lottare e chiedere al governo – dall’opposizione e dal Pd – riforme, riforme, riforme. E soprattutto, rispetto al tema al centro del presente commento, è questa l’Italia per la quale – a mio modo di vedere –una corrente organizzata dei riformisti del Pd dovrebbe costituirsi, parlare e condurre una battaglia politica e culturale, finalizzata a mettere in risalto la perdita di autonomia politica e culturale del gruppo dirigente democratico che – sposando le posizioni anacronistiche del sindacalismo massimalista di Landini sui quesiti referendari in tema di normativa di licenziamento e contratti di lavoro piuttosto che prendere consapevolezza delle reali criticità dell’Italia ma, allo stesso tempo, delle potenzialità d’intervento descritte dai rapporti Cida Censis ed Istat – dimostra di avere come unico scopo quello di cancellare memoria e spazio politico al riformismo e ai riformisti nel partito e nella sinistra.
Così come urge che una corrente organizzata dei riformisti del Pd richieda al gruppo dirigente schleiniano una coerente battaglia di opposizione perché il governo Meloni non solo abbandoni la cosiddetta politica del “pontiere” tra le due sponde dell’Alleanza atlantica occidentale, ma assuma una linea di politica estera al fianco dell’Europa, dell’Ucraina e della Coalizione dei volenterosi. Su questo, però, la Schlein ha un medesimo problema: collocare il Pd e se stessa dalla parte della difesa militare armata dell’Ucraina e dell’Europa, al fianco della Coalizione dei volenterosi. Dalle elezioni amministrative al piano nazionale ed europeo, dunque: questo è l’orizzonte largo sul quale tutti siamo chiamati a confrontarci.
Sessantacinquenne, romano, studi classici, lavora presso Direzione Trenitalia spa, gruppo Fs italiane. Sin da giovane, militante della sinistra: prima nelle fila della Federazione Italiana Giovanile Comunista (FIGC), poi nel PCI (componente migliorista), fino allo scioglimento del partito. Successivamente ha aderito al PDS, poi DS. Attualmente è socio ordinario di Libertà Eguale.