di Alberto Colombelli
Intervento all’Assemblea nazionale di Libertà Eguale – Orvieto, 18-19 gennaio 2025
Lo ha detto molto chiaramente Debora Serracchiani l’altro giorno dai banchi dell’opposizione in aula a Montecitorio, nel suo intervento sul provvedimento per la separazione delle carriere dei magistrati, rivolgendosi al Ministro della Giustizia Carlo Nordio:
“La forma è sostanza, si dice sempre.
Allora, Ministro, non possiamo non dirle che siamo sconcertati di fronte al fatto che una riforma di questa portata, che investe la nostra Costituzione, che entra nel terreno dell’organizzazione di un altro potere, distinto da quello legislativo e da quello esecutivo,
non sia stata proposta cercando il massimo accordo – lei questo non ha proprio provato a farlo – ma sia stata dichiarata da lei stesso, e non solo da lei, ma anche dalla Presidente del Consiglio,
blindata rispetto ad ogni modifica.
(…) A chi diceva: le leggi le scrive il Parlamento, beh, questa noi non l’abbiamo neanche vista passare, non abbiamo potuto neanche toccarla, ed è ricordo un testo del Governo. Passi certamente per le richieste dell’opposizione ma che neppure la maggioranza abbia potuto fare alcunché ci è sembrato troppo.”
(Debora Serracchiani, Camera dei Deputati, Roma, 16 gennaio 2025)
C’è un tema centrale, non solo politicamente, in questo nostro tempo.
Lo è per chi crede nella democrazia liberale e nello stato di diritto.
Lo è ancor di più per chi ha una ispirazione fortemente riformista e vuole che la politica sappia leggere il proprio tempo, sviluppando proposte che sappiano interpretare e guidare la sua evoluzione.
In democrazia il pluralismo è un valore, per i riformisti è un valore assolutamente irrinunciabile e, come tale, il momento in cui appare in difficoltà e sotto attacco è quello in cui deve essere più che mai difeso e riaffermato.
Non a caso proprio sul tema del pluralismo si è svolta a inizio dicembre scorso a Chicago la terza edizione del “Democracy Forum” dell’Obama Foundation.
È stata l’occasione con cui Barack Obama ha cercato di comunicare prontamente al mondo che, indipendente da quello che le elezioni presidenziali americane avevano mostrato, un’altra America ancora c’è ed ha un’altra prospettiva, meno conflittuale e più di condivisione.
Lo ha fatto indicandoci alcuni punti, fermi, chiari.
Punto numero uno:
“costruire ponti non è contrario all’uguaglianza e alla giustizia sociale, anzi, è il nostro miglior strumento per realizzare un cambiamento duraturo”.
Punto numero due:
“il pluralismo non ci impone di negare le nostre identità o esperienze uniche, ma richiede che cerchiamo di comprendere le identità e le esperienze degli altri e di cercare un terreno comune”.
Punto numero tre:
“il pluralismo funziona meglio quando riguarda l’azione e non solo le parole”.
Punto finale:
“non siamo nati con i muscoli per fare del pluralismo un’abitudine, ci vuole pratica e dobbiamo ricostruire le istituzioni che possono darci questa pratica”.
(Barack Obama, Democracy Forum, Obama Foundation, Chicago, 5 dicembre 2024)
Da riformisti dobbiamo riconoscerlo e ammetterlo, senza pluralismo, nel nostro attuale ambiente fortemente polarizzato, le riforme politiche probabilmente non avverranno presto, almeno non quelle che noi vorremmo vedere.
Questo è il motivo per cui è necessario un impegno a tutti i livelli per rilanciare una cultura pluralista.
Dopo Obama il 17 dicembre scorso ce lo ha ricordato anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso alle Alte Cariche dello Stato.
Per poterlo fare si deve partire dall’inizio, anche semplicemente cercando opportunità affinché le persone possano tornare a sentirsi parte di una comunità.
Promuovendo la partecipazione in vecchie e nuove organizzazioni, dalla scuola primaria fino all’età adulta, in realtà capaci di riunire le persone per fare qualcosa.
Gran parte del nostro lavoro migliore avverrà dal basso verso l’alto, non dall’alto verso il basso.
Se miglioreremo il pluralismo, ciò avverrà nei quartieri, nelle comunità in cui trascorriamo il nostro tempo e nelle scuole dove le nostre ragazze e i nostri ragazzi sviluppano competenze e imparano a negoziare e lavorare insieme superando le differenze, capendo quanto è importante cercare alleati anche in posti improbabili.
Così imparare a fidarsi di nuovo l’uno dell’altro deve essere una priorità di ognuno di noi e deve essere visto come un progetto generazionale.
Quelli che si avvieranno su questo percorso scopriranno che, quando applicano i principi di cui abbiamo appena parlato – quando ascoltano, quando riconoscono le loro molteplici identità, quando cercano esperienze e valori comuni – non stanno solo rafforzando le abitudini democratiche.
Stanno costruendo organizzazioni più forti, cioè più capaci di fornire risultati migliori e concreti per i loro membri.
Questa è la forza del pluralismo.
È così che si potrà interrompere questo ciclo di cinismo, così prevalente oggi nella nostra politica e nella nostra società, ed è così che si potrà riaccendere la speranza.
Come ho scritto in un mio recente articolo per Libertà Eguale, speranza oggi è pluralismo, libero e democratico, speranza oggi è capacità di dialogo, speranza oggi è capacità di riconoscere valore nelle differenze.
Lo è soprattutto per noi, per chi crede nella capacità dei sistemi democratici di saper leggere il proprio tempo e sviluppare adeguate politiche riformiste, quelle capaci di dare risposte alle rinnovate esigenze della società e di permettere il progressivo miglioramento nel funzionamento delle istituzioni.
In una democrazia pienamente compiuta grandi riforme richiedono condivisione, quindi pluralismo e non polarizzazione.
Puntare su posizioni radicali, blindare proposte di legge, non è il modo per difendere le nostre democrazie ma è quello di contribuire a destabilizzarle.
Non lo è soprattutto in un contesto globale caratterizzato sempre più da obiettivi ormai espliciti di autarchie organizzate e solidali tra loro che non si accontentano più di reprimere gli oppositori interni ispirati a ideali democratici ma che fanno della lotta contro le democrazie liberali e i loro valori un preciso obiettivo di politica estera.
Quello che le autarchie temono maggiormente è la capacità di ispirazione e di attrazione dei valori e dei sistemi democratici.
Quindi a difesa del loro potere si sono organizzate per destabilizzare direttamente le democrazie liberali.
Questo è l’unico elemento che unisce autarchie profondamente diverse tra loro, dalla Russia nazionalista alla Cina comunista fino all’Iran teocratico.
E nella loro strategia di destabilizzazione contano anche su comportamenti di attori interni alle democrazie liberali che progressivamente spingono verso una magistratura sempre meno indipendente, un sistema dei media sempre meno libero e credibile, un’opposizione sempre più fragile e soprattutto su cittadini che partecipano sempre meno al processo democratico per paura, disillusione, perdita di speranza, apatia, cinismo o nichilismo.
Di fronte a questo scenario, ci dice Anne Applebaum nel suo ultimo libro “Autocrazie”:
“(…) le democrazie del Nordamerica, dell’America Latina, dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, insieme ai leader dell’opposizione democratica in Russia, Cina, Iran, e in altri stati autocratici, dovrebbero concepire la lotta per la libertà non come una competizione con specifici stati autocratici, bensì come una guerra contro i comportamenti autocratici, dovunque si manifestino: in Russia, in Cina, in Europa, negli Stati Uniti.
(…) Le retoriche autocratiche sono studiate per minare l’innata attrattiva di quelle idee, per descrivere la dittatura come stabile
e la democrazia come caotica. I media democratici, le organizzazioni civiche e i politici devono controbattere e sostenere la causa della trasparenza, della responsabilità e della libertà, in patria e in tutto il mondo.
(…) Per nessuno la democrazia è al sicuro.”
(…) [Le democrazie liberali] Possono essere distrutte dall’esterno e anche dall’interno, dalla divisione e dai demagoghi. Oppure possono essere salvate. Ma soltanto se noi che ci viviamo siamo disposti a compiere questo sforzo.”
(“Autocrazie: Chi sono i dittatori che vogliono governare il mondo” di Anne Applebaum, Mondadori, 2024)
Serve un cambiamento culturale prima ancora che politico, che, come sempre, non può che partire e dipendere da ciascuno di noi.
Serve un impegno e uno sforzo congiunto.
Facciamolo, insieme.
Consulente d’impresa, esperto in Corporate Banking. Già delegato dell’Assemblea Nazionale del Partito Democratico, è attivo nell’Associazione europeista Freedem e nell’Associazione InNova Bergamo. Ha contribuito al progetto transnazionale di candidatura UNESCO delle ‘Opere di difesa veneziane tra il XV e il XVII secolo’. Diplomato ISPI in Affari europei. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. E’ impegnato nella costruzione di una proposta di alleanza tra tutti gli europeisti riformatori.