di Marco Leonardi e Luciano Monti
Nel dibattito sul piano “ReArmEU” – ora ridenominato “Readiness2030” – sta emergendo un nodo che riguarda il modo in cui utilizziamo i fondi di coesione. Queste risorse europee, nate per sostenere lo sviluppo territoriale, oggi sono al centro di una proposta della Commissione che ne consente il riutilizzo anche per scopi legati alla sicurezza e alla difesa. Una svolta che ha già suscitato polemiche in Italia, ma che va letta con pragmatismo.
Chi conosce il funzionamento della programmazione europea sa che una parte rilevante delle risorse non utilizzate entro le scadenze finisce su un binario morto, investita in progetti marginali e di dubbia utilità, pur di non essere restituita a Bruxelles.
I fondi europei non sono debito, come gran parte del PNRR, cui si può sempre rinunciare; i fondi europei sono a fondo perduto, quindi, se non fossero utilizzati dovrebbero essere restituiti. I conti sono presto fatti: sulla programmazione appena conclusa, la 2014-2020, risultano ancora “in essere” il 68% dei progetti avviati (714.732 progetti!) che ovviamente ora sono stati spostati sul bilancio nazionale. Ben 118.606 dei progetti in corso, ovvero il 13% del totale, per un valore sicuramente molto superiore ai 10 miliardi, sono stati riprogrammati sul bilancio nazionale o, peggio ancora, sulla nuova programmazione. Per questa programmazione in corso, la 2021-2027, sarà molto peggio perché in contemporanea ci sono da spendere i soldi del PNRR. Al 31.12.24 risultavano spesi il 4% dei fondi e impegnati il 17%.
Per come è stato concepito il piano ReArmEU, era prevedibile che si offrisse agli Stati membri la possibilità di riprogrammare gli attuali fondi di coesione. Non è un obbligo, ma una mera opzione. Non si tratta ovviamente di riprogrammare le risorse destinate all’istruzione, alla cultura o all’ambiente, ma di reindirizzare per esempio parte di quelle destinate alla competitività, alla ricerca e all’innovazione. In Italia, nella precedente programmazione a questo titolo sono stati erogati dai ministeri e dalle regioni 16,33 mld di euro. In questa programmazione, il PON innovazione e competitività è dotato di 1,5miliardi e ne ha spesi meno dell’1%. Comunque non potrebbe essere speso direttamente in armi ma in industrie che hanno a che fare con la sicurezza e la difesa.
La commissione ha concesso di aumentare la spesa per la difesa dei singoli paesi, in deroga al nuovo patto di stabilità, fino a un totale complessivo di 650 miliardi. Lo ha fatto per giustificare l’aumento della spesa deciso dalla Germania e finanziato con la decisione storica di allentare i vincoli sul debito pubblico nazionale tedesco. Molti paesi, compreso il nostro, che pure hanno sempre insistito affinché la Germania spendesse di più e affinché le spese per investimento fossero in deroga al Patto di stabilità, adesso hanno cambiato idea e non vogliono fare nuovi debiti. Il rischio ora è di costruire un’Europa della difesa che si limita alla sola Germania. In altri Stati, la difesa resta un tema troppo politicamente sensibile per giustificare nuovo debito o nuove spese. L’idea che i fondi europei possano essere utilizzati, anche indirettamente, per sostenere l’industria militare è divisiva. Così il piano rischia di restare sulla carta, eccetto appunto per la Germania.
Piuttosto c’è da dire che la riforma della coesione rende palesi i difetti del piano di riarmo UE. Molti paesi non investiranno sulla difesa per non intaccare la coesione e comunque quelli che investiranno sarà poca roba, assolutamente insufficiente a costituire forze di difesa nazionali solide. La parte del piano da aumentare è quella dei 150 miliardi del fondo comune di debito “SAFE” che impone per lo meno progetti di investimento condivisi tra stati ai fini di una costruzione di una difesa comune. I 650 miliardi “volontari” rimarranno tali o comunque saranno poco utili. Un incremento dell’attuale Piano finanziario pluriennale dell’UE non è all’ordine del giorno.
Ma è sulla futura programmazione dei fondi di coesione che si gioca una partita ancora più importante. Non si tratta della destinazione dei PON dei ministeri per l’innovazione e la competitività, ma si tratta dei POR, i piani operativi regionali. Non possiamo pensare di conciliare due approcci inconciliabili: da un lato, un modello simile al PNRR – con obiettivi chiari, milestones, responsabilità centralizzate – e, dall’altro, un’impostazione che lascia massima autonomia alle regioni. O si sceglie una logica di progetto nazionale con forte cabina di regia, oppure si accetta che i fondi UE diventino strumenti locali, con tutte le disfunzioni e le dispersioni che ciò comporta.
Questo vuol dire ridefinire il ruolo delle regioni nel loro rapporto diretto con Bruxelles. Perché più autonomia non sempre vuol dire più efficienza. Spesso, significa più frammentazione. Allora piuttosto le regioni contrattino con lo Stato e poi lo Stato si faccia portatore a Bruxelles delle loro istanze.
Professore di economia politica all’università degli Studi di Milano, si occupa di disoccupazione e diseguaglianze. E’ stato tra gli anni 2015 e 2018 membro del comitato tecnico di valutazione della Presidenza del Consiglio e consigliere economico del Presidente Gentiloni. Ha scritto un libro sulle riforme di quegli anni dal titolo “le riforme dimezzate, perché su lavoro e pensioni non si può tornare indietro”, EGEA 2018. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale.