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Donald Trump ha una “dottrina” di politica estera?

Alessandro Maran domenica 8 Giugno 2025
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di Alessandro Maran

 

Il presidente Donald Trump ha una “dottrina”, se così si può dire, di politica estera? Gli analisti dibattono sulla questione fin dal suo primo mandato.
Quando Trump è tornato in carica, Richard Fontaine del think tank CNAS di Washington ha sostenuto su Foreign Affairs che, nonostante tutte le deviazioni di Trump dallo stile e dal tono presidenziale tradizionale, le sue politiche effettive – ad esempio sulle spese per Gaza e gli alleati della NATO – non sarebbero state così diverse da quelle dell’ex presidente Joe Biden (https://www.foreignaffairs.com/trump-biden-trump-foreign…). Sulla rivista Compact, il professore del New College Adam Rowe ha sostenuto che l’espansionismo territoriale di Trump (ad esempio, i suoi progetti sulla Groenlandia) “rappresenta una rinascita della schietta esuberanza nazionale alla base della Dottrina Monroe e del Destino Manifesto” (https://www.compactmag.com/…/the-return-of-american…/). Su Foreign Policy, l’editorialista Matthew Kroenig ha scritto che, nonostante Trump sia considerato abbastanza caotico, la sua politica estera è in realtà prevedibile, in quanto si attiene costantemente a tre principi: anteporre gli interessi degli Stati Uniti a tutto il resto, l’idea che gli Stati Uniti “vengano derubati” e la convinzione che “il metodo per correggere questi squilibri globali sia passare dall’escalation alla de-escalation” attraverso le minacce (https://foreignpolicy.com/…/trump-first-100-days…/…).
L’altro giorno, nell’ultimo episodio del podcast The Ezra Klein Show, Emma Ashford dello Stimson Center propone una variante della summenzionata tesi di Kroenig (https://www.nytimes.com/…/ezra-klein-podcast-emma…). Ashford, osserva il conduttore Klein, si colloca nel campo realista dei pensatori di politica estera. Per capirci, i realisti sostengono che le relazioni internazionali siano determinate dall’interesse egoistico, che i leader e i paesi cerchino di accumulare vantaggi relativi in ​​termini di potere politico, militare ed economico. Il realismo è spesso contrapposto all’altra principale scuola di pensiero sulle relazioni internazionali, il liberalismo, che si concentra maggiormente sulla pace e la prosperità ottenibili attraverso istituzioni cooperative come le Nazioni Unite e aspetti interni come la democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto. Ashford colloca Trump principalmente nella scuola di pensiero realista.
Durante il suo primo mandato, Trump era circondato da consiglieri con opinioni divergenti in politica estera, sottolinea Ashford; questa volta, sembra esserci una maggiore convergenza. E questa convergenza è, in generale, incentrata sul realismo, sostiene Ashford: “Molto di ciò che l’amministrazione sta facendo è in realtà orientato, credo, agli interessi degli Stati Uniti (…) in una maniera di interpretarli estremamente conservatrice. La protezione del confine ne sarebbe un esempio. Ma la condivisione degli oneri o il trasferimento degli oneri agli alleati europei” è una politica guidata dalla percezione che l’amministrazione ha degli interessi nazionali statunitensi. I collaboratori di Trump “danno molto valore alla sovranità degli Stati Uniti. Vogliono pensare agli interessi americani in termini di (…) prosperità e sicurezza delle persone che vivono negli Stati Uniti (…) ma non necessariamente degli alleati degli Stati Uniti, non necessariamente di stati partner”. L’affinità di Trump per leader e paesi autoritari è in parte, suggerisce Ashford, una conseguenza del suo realismo: a Trump non interessano molto i principi liberali come la democrazia o i diritti umani, a dire la verità. Gli piace vedere le cose filare lisce, e possono diventare molto complicate nei paesi che garantiscono il diritto di protestare.
Certo, alcune delle scelte di politica estera di Trump hanno a che fare con i suoi interessi personali, riconosce Ashford: in particolare, con la sua eredità. Dopo aver ricevuto elogi durante la sua prima amministrazione per gli Accordi di Abramo, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele e una manciata di stati arabi, Trump sembra voler dare seguito alla sua eredità presidenziale con un accordo per porre fine alla guerra della Russia contro l’Ucraina, afferma Ashford.
Più modestamente, secondo il columnist del Financial Times Gideon Rachman, in generale, alla politica estera di Trump si applica il principio del TACO. Le prime pagine dei giornali finanziari sono stati inondate dal termine “TACO trade”: un investimento a breve termine motivato dal presupposto che «Trump Always Chickens Out» (che sarebbe come dire «alla fine Trump se la fa sempre addosso», «si tira sempre indietro»). I mercati sono crollati a causa dei drastici dazi di Trump? Scommetti contro il ribasso, dice la logica del TACO, e guadagnerai quando il presidente farà marcia indietro. E Rachman sostiene che Trump si tira sempre indietro anche in politica estera.
“Applicare il principio del Taco alle attuali crisi di politica estera è istruttivo”, scrive Rachman. Trump ha minacciato di autorizzare attacchi contro l’Iran, se gli attuali colloqui per limitare il suo programma nucleare dovessero fallire. Ma i precedenti suggeriscono che probabilmente rimarrà molto riluttante a colpire l’Iran, qualunque cosa accada nei negoziati. Per quanto riguarda l’Ucraina, Trump sarà probabilmente ancora più cauto dell’amministrazione Biden su qualsiasi cosa che rischi un’escalation con la Russia (…) I luoghi che devono preoccuparsi sono quelli che sembrano vulnerabili o difficilmente in grado di reagire. La Groenlandia potrebbe rientrare in questa categoria, il che suggerisce che la Danimarca e l’UE devono trovare il modo di far sapere a Trump che ci sarà un prezzo da pagare se farà un’azione sull’isola” (https://www.ft.com/…/714c1096-eb17-40b0-a570-8a051406bc75).
Resta il fatto che, come ha scritto Giuliano Ferrara sul Foglio, “tra caos economico e fallimento dell’art of the deal su tutti i fronti, il mondo ha ottenuto un sinistro imbarbarimento della prospettiva politica, e l’idea che il pragmatismo di Trump alla fine ci avrebbe risparmiato rischi fatali rimescolando le carte irrigidite dell’epoca euro-atlantica si è dissolta nel grottesco. L’assenza di una solidità di cultura, di linguaggio e di azione in politica estera, a partire dal vuoto scavato dalla presidenza Trump agli esordi, pessimi esordi, si ripercuote su tutti noi in modo inaudito, offrendo a Putin e ai suoi alleati cinesi il dono di un asse occidentale scombussolato dalla fine del primato e della guida americana, mentre per quanto sempre più determinata e volitiva e seria, la sola deterrenza degli stati nazionali europei e dell’Unione potrebbe non bastare a evitare nuove sciagure (https://www.ilfoglio.it/…/la-decadenza-americana-sta…/).
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