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Donald Trump, un candidato fuori di testa

Alessandro Maran sabato 2 Novembre 2024
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di Alessandro Maran

Che Trump sia un candidato poco convenzionale, lo attestano il suo modo di parlare sconclusionato, gli insulti, i comizi trasformati in spettacolo. Su Le Monde, la columnist Sylvie Kauffmann offre un buon promemoria di quanto tutto questo sia strampalato e mattoide. “Il successo di Trump è che è riuscito a manipolare il dibattito politico in modo tale che non solo non si basi più sui fatti, ma venga anche condotto completamente al di fuori degli schemi di ragionamento comunemente accettati”, scrive Kauffmann (https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/10/23/trump-est-le-seul-modele-dans-le-monde-occidental-a-avoir-a-l-issue-d-un-long-processus-installe-le-debat-politique-dans-l-ere-des-rationalites-paralleles_6358434_3232.html). “Visto dall’Europa (…) lo ‘stile digressivo’ del candidato repubblicano non è solo confuso, è completamente fuori di testa”. Nell’articolo Kauffmann cita alcuni esempi recenti: “Trump ha definito la sua avversaria democratica Kamala Harris una ‘vicepresidente di merda’ con un ‘basso QI’, un”idiota’, un”incompetente’ e una ‘marxista’. Ha accusato gli immigrati di rubare gatti e cani per mangiarli. Ha chiesto la sospensione delle licenze per i canali TV che lo hanno criticato. Ai comizi, ha delirato sulle dimensioni dei genitali del defunto campione di golf Arnold Palmer, o almeno, su cosa la gente diceva di loro quando ‘uscivano dalla doccia’”. E così via.

Roba da pazzi. Qualche settimana fa segnalavo appunto la delirante intervista di Donald Trump con John Micklethwait, caporedattore di Bloomberg News (che qui trovate anche trascritta: https://www.bloomberg.com/…/2024-trump-interview…/): uno dei documenti forse più importanti fino ad oggi per cominciare a farsi un’idea delle possibili conseguenze di una vittoria di Donald Trump. Eppure, nell’ultimo episodio del podcast di interviste di Foreign Affairs, la storica di Yale Beverly Gage riconosce una tradizione all’interno della quale Trump sembra adattarsi bene. È davvero strano che Trump elogi gli autocrati, per esempio (l’argomento di un recente articolo di Gage sempre su Foreign Affairs: https://www.foreignaffairs.com/…/autocratic-allure…), ma le idee non-mainstream sono sempre esistite nella politica degli Stati Uniti, fa notare Gage nel podcast. La differenza oggi è che Trump, a differenza di alcuni degli attivisti che lo hanno preceduto, ha raggiunto davvero le stanze del potere e ha costruito una base istituzionale per promuovere le idee e gli impulsi che manifesta.
“Penso a una figura come Henry Ford”, dice Gage. “Una icona culturale incredibilmente potente. Nella prima guerra mondiale è un isolazionista e poi, subito dopo, è una specie di sostenitore della pace, ma in un modo molto strano, ed è ovviamente un noto antisemita. E ciò che è interessante di Henry Ford è che è l’uomo più ricco del mondo, o uno di quelli, una figura eroica enormemente popolare, ma quando si è candidato al Congresso nel 1918, ha perso. Quindi non è mai entrato nel sistema politico in modo esplicito. O una figura come Charles Lindbergh, vero, stesso tipo di storia. O anche una figura come William F. Buckley negli anni del dopoguerra. Un pensatore e un influencer, come lo chiameremmo oggi, enormemente potente ma non qualcuno che abbia mai avuto un potere politico organizzato, ed è questo che rende diverso questo momento” (https://www.foreignaffairs.com/…/what-trump-and…).
Insomma, quello a cui stiamo assistendo nella politica statunitense in questi giorni non è uno scontro normale, non è solo il solito scontro tra i partiti, ma una ribellione antiliberale che minaccia l’ordine costituzionale liberale, e non è affatto detto che non avrà successo. La lotta tra le forze del liberalismo e quelle dell’antiliberalismo è tuttavia vecchia quanto la repubblica americana; e dovrebbe essere affrontata e analizzata storicamente. Questi sono due punti di partenza chiave delle riflessioni proposte da Robert Kagan in un libro fondamentale per capire che costa sta succedendo in America. Ne ho scritto qui su FB il 20 agosto raccomandandone la lettura.“Insurrezione. Il populismo illiberale che sta facendo a pezzi l’America e la società aperta”, è in libreria da ottobre pubblicato da Linkiesta.it Books (https://www.librerie.coop/…/9788898827299-insurrezione…/) che ne riassume così il contenuto:
“Decine di milioni di americani hanno deciso di ribellarsi al sistema politico in vigore da più di due secoli negli Stati Uniti e hanno scelto come leader Donald Trump. Il loro obiettivo è il sostanziale smantellamento della democrazia liberale nata dalla Rivoluzione americana. La crisi provocata da questi umori insurrezionalisti potrebbe avere degli esiti devastanti e senza precedenti, ma, in realtà, questa lotta tra liberali e antiliberali che sta lacerando la nazione è vecchia quanto la Repubblica. La Rivoluzione americana, infatti, forgiando per la prima volta nella storia del mondo un sistema che, sulla base di principi radicali, si impegnava e si impegna nella protezione dei diritti di tutti gli individui di fronte al governo e alla comunità, suscitò fin da subito una reazione ostile da parte degli schiavisti, di alcuni movimenti religiosi e di quei molti americani che cercavano di proteggere le gerarchie tradizionali dalla forza livellatrice dei principi liberali. Anche in seguito, questa ostilità non si è mai spenta e l’idea secondo cui tutti gli americani condividono lo stesso impegno verso i principi fondativi della nazione è sempre stata un gradevole mito, o forse una nobile bugia. In realtà, molti americani hanno sempre rifiutato l’affermazione dei Fondatori secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali e dotati di diritti inalienabili come quello alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Costoro hanno sempre mantenuto il desiderio di vedere gli Stati Uniti in termini etno-religiosi, come una nazione bianca e protestante. Il movimento che sostiene Trump non è quindi una stravagante novità: come se fosse uno spirito demoniaco in un romanzo di Stephen King, quel movimento, ora più visibile ora meno, è con l’America da sempre. Ma, oggi che ha preso il controllo del Partito repubblicano, rischia di distruggerla”.

È questa minaccia alla democrazia che oggi spinge l’Economist all’endorsement per Kamala Harris: “Un secondo mandato di Trump comporta rischi inaccettabili. Se The Economist avesse un voto, lo daremmo a Kamala Harris”, scrive la rivista inglese (https://www.economist.com/…/a-second-trump-term-comes…).

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