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Dopo dieci anni torniamo al Lingotto, per ripartire

Enrico Morando mercoledì 8 Marzo 2017
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Quasi dieci anni fa, il 27 giugno del 2007: Veltroni al Lingotto. Io non c’ero, a Torino. Ero al Senato, in Aula. E ricordo la vera e propria emozione con cui l’ho seguito, quel discorso, grazie al telefonino di Antonio Polito. L’emozione non era data dal fatto che ciò che sentivo, lo sentissi per la prima volta. Nei giorni precedenti c’avevamo lavorato tanto, con Walter che riceveva i nostri contributi, accettava e scartava idee e proposte. Nell’atmosfera febbrile che si crea quando senti che stai condividendo con altri l’esperienza di costruire qualcosa di importante.

L’emozione era data dal fatto che “sentivo” che il discorso funzionava, che riusciva – argomento per argomento e complessivamente – a dare il senso che alla radice del PD e della leadership di Veltroni non c’era la giustapposizione delle forze dei DS e della Margherita. “Sentivo” che quella piattaforma era una base sufficiente a realizzare “l’amalgama”. Sì, quello che D’Alema avrebbe, dopo qualche tempo, cominciato a dire che non era riuscito. Esattamente come nel ’96, a Gargonza, aveva negato la soggettività politica dell’Ulivo.

Veltroni lo disse esplicitamente, nell’ultima parte del suo discorso: per l’elezione dell’Assemblea Costituente del PD, disse, “debbono nascere liste che non siano mai espressione dei singoli partiti che hanno accettato la sfida. È giusto così. Ed è il modo per accendere nei cittadini la voglia di partecipare al voto del 14 ottobre”.

E, parlando della collocazione europea e internazionale del PD: “Rimango dell’idea che ho sostenuto in questi anni: una grande casa dei democratici e dei socialisti”. E terminava, su questo punto, dicendo: “Ora bisogna fare l’ultimo miglio. Bisogna incrociare le storie ed aprirsi. Bisogna arrivare ad una “indistinguibilità” organizzativa di ciascuno. Il PD non sarà un partito di ex. Sarà finalmente, la casa dei “Democratici”. La più bella definizione di sé che un essere umano possa dare”.

Ecco. Cominciamo da qui il nostro bilancio, a distanza di dieci anni.

Era sbagliata, la mia impressione? Siamo Democratici, o siamo ex DS-PDS-PCI; o ex Margherita, Popolari, sinistra DC; o ex SDI, PSI; ecc? Il bicchiere, secondo me, è pieno per più di metà: pensate alla tranquilla adesione – sotto la leadership di Renzi -, al Partito dei Socialisti e dei Democratici Europei e al relativo gruppo parlamentare.  Il mio amico e maestro Macaluso non vuole riconoscerglielo, se non di sfuggita e di malavoglia, ma ha dovuto arrivare Renzi, un “non socialista”, per chiudere – nel senso da Macaluso stesso tante volte auspicato -, la vicenda della collocazione internazionale del nuovo Partito.

Pensiamo al convinto sostegno di tutti i parlamentari Democratici alla Legge sulle Unione Civili, radicalmente oltre quel “bipolarismo etico” che Veltroni denunciava come pernicioso, nel suo discorso. Pensiamo al fatto che oggi nel sostegno alla candidatura di Renzi, si incontrano persone come Fassino e il sottoscritto – due candidati a Segretario del Congresso di Pesaro del 2001 dei DS, entrambi provenienti dal PCI – e Dario Franceschini, dirigente dei giovani democristiani.

Non sarei onesto con me stesso e con voi se negassi che vedo, in proposito, un rischio: che cioè la candidatura di Orlando sia motivata, interpretata e vissuta come il frutto di un richiamo identitario, non a ciò che vogliamo diventare, ma a ciò che siamo stati. Forse anche a causa dei continui richiami dei protagonisti della scissione di questi giorni al sostegno di questa candidatura, lasciando intendere –e in qualche caso dicendo apertamente – che in caso di un suo successo le ragioni della scissione verrebbero meno. Ragioni – fatemelo dire – evidentemente non molto profonde…

Ma torniamo al nostro bilancio… L’amalgama, a mio giudizio, è riuscito, perché su ogni tema i confini delle posizioni interne al PD non ripetono i confini dei vecchi partiti (esempio ultimo: la politica delle privatizzazioni). Ma, soprattutto, perché – in questi dieci anni – abbiamo sviluppato uno spirito di squadra, ci siamo sentiti “parte”. Vincenti (europee del 2014) o perdenti (le Politiche del 2013; il Referendum) che fossimo. È chi ha brindato per le sconfitte che ha mostrato di essere estraneo a questo processo. Perché, evidentemente, non le ha sentite come sconfitte “sue”. Tutto il contrario di quello che successe a me, dopo la sconfitta del 2013. Con altri, l’avevo prevista, ed avevo fatto tutto quello che potevo per evitare che andassimo con quell’approccio alle Politiche. Ma, una volta arrivata non l’ho vissuta come la sconfitta di qualcun altro…

In tema di partito, non è dunque sul mancato “amalgama” che abbiamo fallito. Veltroni aveva detto, al Lingotto: “un partito aperto ai cittadini, a quei movimenti che nel corso di questi anni hanno interpretato meglio la domanda di cambiamento, di rinnovamento della politica…”. I cittadini Democratici, loro, ci hanno preso sul serio: sono accorsi in tre milioni, a mettersi in fila, in quel 14 ottobre.

Ma noi – a tutti i livelli, dal nazionale al locale – non abbiamo saputo raccogliere e organizzare quella enorme disponibilità all’impegno. Così, quegli elenchi di elettori più attivi – la grande miniera di energia, voglia di fare, domanda di partecipazione – li abbiamo infilati in un cassetto. Da cui li abbiamo tirati fuori – non come partito, ma come singoli gruppetti interni – in occasione della battaglia per le Parlamentarie o per le preferenze nelle elezioni locali. C’è chi pensa che sia stato giusto così: in fondo, questa di far decidere il nostro Congresso da milioni di elettori sarebbe una trovata stravagante, da cui sarebbe meglio rientrare, per soluzioni più normali e ordinate.

Ci aveva provato Cuperlo, nel Congresso precedente. E ora Orlando torna sul tema: “E’ sempre più difficile che il segretario del partito di maggioranza relativa sia anche il premier”.

Mi chiedo: possibile che non si capisca che, una volta venuta meno la identificazione tra Segretario e candidato premier, non ci sarebbe nessuna ragione sensata per far scegliere il segretario dagli elettori, e non dagli iscritti? Se quello che dobbiamo scegliere è il responsabile della organizzazione, allora non è ragionevole chiedere a chi non è parte della “organizzazione” in senso stretto di partecipare alla scelta. Ma la scelta del leader col voto di tutti gli elettori più attivi è una delle componenti essenziali del “mito originario” del PD, perché è la premessa e al tempo stesso la conseguenza di quella “vocazione maggioritaria” di cui ha parlato Veltroni al Lingotto: “Il Partito Democratico deve avere in sé un’ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente, ma maggioritaria. Deve sapere che il suo messaggio di innovazione e di comunità può motivare il suo campo e conquistare consensi anche diversi”.

Altro dunque che stranezze statutarie dei Vassallo e dei Ceccanti: qui stiamo toccando un punto nevralgico della funzione e della natura del PD. Chi propone di spazzarlo via, intacca la solidità dell’edificio nuovo che abbiamo costruito insieme.

Il punto, semmai, è l’opposto: bene il protagonismo decidente degli elettori. Male, molto male, il ricorrervi solo ogni quattro anni. Qui, abbiamo mancato tutti, a partire da Renzi. E la sua mozione deve indicare le strade che portano a porre rimedio a questo colpevole errore. È questo un obiettivo cruciale, che è stato mancato non solo da Renzi, ma anche da Veltroni, nella breve fase della sua segreteria, troncata dalla decisione di ritirarsi, senza convocare un nuovo Congresso, per raccogliere la sfida che era stata lanciata proprio da quegli stessi che oggi sono i principali protagonisti della scissione.

Ma non voglio dedicare tutto il mio tempo al tema partito.

Vengo quindi a richiamare un’altra parte del discorso di Veltroni: “La lotta alla precarietà è la grande frontiera che il Partito Democratico ha davanti a sé”. Non parlava soltanto della precarietà del lavoro. Si riferiva alla diffusa incertezza sulle prospettive più generali di vita che attanaglia i giovani e non solo. Ma, certo, la precarietà del rapporto di lavoro, la debolezza delle tutele dal rischio disoccupazione, la profondità del solco che divide scuola e lavoro, sono componenti essenziali di questa incertezza, della dilagante precarietà presa di mira da Veltroni.

Ora, abbiamo governato 4 dei 10 anni che ci separano dal Lingotto 2007. Siamo stati all’altezza degli impegni che prendemmo?

Naturalmente, precarietà e incertezza non si sono dissolte. Ma è difficile non riconoscere che – attraverso le riforme messe in atto dal Governo Renzi – si sono conseguiti risultati importanti: tra fine 2014 e fine 2016, il numero dei posti di lavoro con contratto a tempo indeterminato è aumentato – grazie al combinato disposto di nuove regole del Jobs Act e decontribuzione per i neo assunti – di più di un milione. Sì, proprio il milione di cui parlò Berlusconi. Solo che con lui se ne è parlato, e molto. Con noi si è realizzato. Ma noi non ne parliamo affatto. È troppo chiedere che tutto il PD – a prescindere da quale sia il candidato prescelto per il Congresso – valorizzi questo risultato? Magari aggiungendo – a fronte di chi straparla di licenziamenti a gogò grazie al nuovo art. 18 dello Statuto – che da che mondo è mondo il numero dei licenziamenti aumenta se l’occupazione aumenta. Quello che conta è il tasso di licenziamento (quanti licenziamenti su 100 posti). Ebbene, dall’approvazione del Jobs Act il tasso di licenziamento è in costante diminuzione: dal 6,5% del 2014 al 5,9 del 2016. Non solo: col Jobs Act siamo finalmente entrati nel novero dei Paesi civili, dotati di uno strumento universale – e non categoriale – di copertura dal rischio disoccupazione.

Deve invece preoccuparci – ecco un buon argomento per il prossimo Congresso – che l’unica innovazione introdotta dal Jobs Act restata lettera morta sia stata quella relativa all’effettiva possibilità per il lavoratore caduto in disoccupazione di esercitare un diritto soggettivo a ricevere dallo Stato una somma da spendere presso un soggetto – pubblico o privato -, in grado di aiutarlo a riqualificarsi e a trovare un nuovo posto di lavoro. La regola del Jobs Act prevede che l’agenzia in questione riceva il pagamento per le sue prestazione solo se la riqualificazione e la ricollocazione al lavoro sono coronati da successo. Perché questa parte del Jobs Act è l’unica inattuata? Purtroppo, perché è quella davvero innovativa, che si può attuare solo se alla tradizionale assistenza passiva (sostegno al reddito), si accompagnano politiche attive, che implicano un salto di qualità sia nella efficienza del pubblico, sia nella intraprendenza del privato.

Veltroni lo aveva detto al Lingotto: “il dinamismo economico e sociale – ed un più elevato grado di giustizia sociale – può essere sorretto da un patto tra generazioni che sappia ispirarsi ai valori eterni di solidarietà ed eguaglianza, ma anche modificare profondamente gli strumenti e le politiche per attuarli”. Su questo, possiamo dunque concludere, dopo dieci anni: abbiamo fatto un bel tratto di strada, ma dobbiamo accelerare il passo, perché la meta è ancora lontana.

Impressionò molto, nel discorso del Lingotto, la nettezza lapidaria con cui Veltroni prese le distanze dal tassa e spendi della vecchia sinistra. Olof Palme che piace a Veltroni non è quello della mera tosatura fiscale a fini redistributivi della pecora capitalista. È quello che impegna la socialdemocrazia nella battaglia “non contro la ricchezza, ma contro la povertà”.

“Per troppi anni la sinistra si è accomodata nella logica del tassa e spendi – dice Veltroni -. È nostro interesse e dovere, dunque, dare conto della svolta che dobbiamo operare”. E fa seguire questa scelta di campo da una serie di proposte precise, che tengono insieme lotta all’evasione fiscale e revisione della spesa, perché – dice finalmente un leader del riformismo italiano -, dobbiamo essere consapevoli del fatto che una delle ragioni di difficoltà incontrate dall’azione di contrasto dell’evasione è l’enorme distanza tra ciò che il contribuente leale paga e ciò che riceve in cambio dalla Pubblica Amministrazione.

“Mi chiedo – conclude Veltroni – se non si debba lavorare ad un profondo ripensamento di tutto questo, per entrare in una spirale virtuosa: man mano che lo Stato abbassa le aliquote e semplifica gli adempimenti, i contribuenti accrescono il livello di fedeltà delle loro dichiarazioni e la loro recuperata fiducia nello Stato crea quel clima di condanna sociale dell’evasione che oggi manca”.

La proposta dell’introduzione della cedolare secca sugli affitti veniva portata ad esempio di questo indirizzo politico generale (sarebbe stata realizzata di lì a non molto, sia pure monca: la detrazione a favore di chi paga l’affitto non è mai stata introdotta). La stessa efficacia comunicativa, unita alla precisione della soluzione, aveva la proposta di realizzare una gigantesca operazione di riequilibrio tra le diverse basi imponibili, allo scopo di premere di meno sul lavoro e sull’impresa, di più sui patrimoni. “Il manager sulle plusvalenze delle sue stock option paga con l’aliquota del 12,5%; un operaio che versa il suo salario in banca paga sugli interessi con l’aliquota del 27%”.

Anche su questa strada, nel corso dei dieci anni, abbiamo camminato. E abbiamo cambiato le cose. Sia grazie all’azione sviluppata dalla opposizione ai Governi di centro-destra, sia, soprattutto, con i Governi che abbiamo sostenuto, da Monti a Gentiloni, passando per Letta e Renzi. È stato in particolare il Governo Monti a realizzare un robusto incremento del prelievo sui patrimoni, mobiliari e immobiliari, che ha fatto uscire il Paese dagli ultimi posti della graduatoria del gettito da imposta patrimoniali, fino a giungere vicino al podio.

Resta però uno squilibrio molto grande. E assai negativo per la crescita: l’Italia è ai vertici, tra i Paesi Europei, per dimensione del prelievo sul lavoro e sulla impresa, mentre è ventiduesimo su ventisette per dimensione del gettito sui consumi. È uno dei fondamentali fattori di penalizzazione delle nostre capacità competitive.

Il Governo Renzi – andrebbe forse valorizzato di più, questo risultato – ha messo in atto scelte – gli 80 Euro; la eliminazione del costo del lavoro stabile dalla base imponibile dell’IRAP; la riduzione di 4 punti dell’aliquota IRES –  che hanno ridotto strutturalmente la pressione fiscale sul lavoro e sull’impresa di circa 20 miliardi di Euro l’anno. È vero: abbiamo anche eliminato l’IMU sulla prima casa. E l’IMU è un imposta patrimoniale. Posso capire che su quest’ultima scelta si possano nutrire perplessità. O anche (non è il mio caso), contrarietà. Ma, anche ammesso che si sia trattato di un errore, siamo a 3,5 miliardi di risorse impiegate per ridurre un imposta patrimoniale, a vantaggio di quell’80% di famiglie che vivono nella casa di proprietà, contro 20 miliardi impiegati per ridurre le tasse che gravano sui produttori, lavoratori e impresa. Ammesso, e non concesso, che contraddizione sia, mi sembra relativamente lieve.

Lo squilibrio resta tuttavia grande: troppo peso sul lavoro e l’impresa, a paragone con quello sui consumi.

Di qui l’esigenza di una discussione seria, in tutte le sedi, a partire da quella offerta del Congresso del PD: una permanente, significativa riduzione del prelievo sul lavoro e l’impresa, che favorisca le assunzioni e il lavoro stabile, finanziata da un equivalente recupero di gettito da imposte indirette. Si può fare: la gran parte di questo recupero può venire dal passaggio alla obbligatorietà della fatturazione elettronica, anche per i rapporti fra privati (quella per il rapporto tra privati e pubbliche amministrazioni c’è già). È tecnicamente fattibile. E l’esperienza di altri Paesi dimostra che può ottenere risultati molto significativi.

Facendo tesoro della indicazione di principio da cui è partito Veltroni al Lingotto nel 2007, ed applicandola al nuovo contesto, potremmo dunque concludere, su questo punto: ogni Euro ricavato dal contrasto all’evasione IVA, non può essere usato per finanziare nuova spesa. Deve essere impiegato per ridurre la pressione fiscale sul lavoro e sull’impresa, fino a farle assumere le dimensioni che essa ha in Germania.

Nel discorso del Lingotto c’era tanta Europa: “Nessuno Stato nazionale, grande o piccolo che sia, è in grado di assicurare ai suoi cittadini prosperità, sicurezza, libertà, pace. È solo l’Unione … che può riuscire a fare questo”.

A distanza di dieci anni, deve risultare più chiaro che questa affermazione è gravida di profonde conseguenze, che non abbiamo tirato. O, almeno, non abbiamo tirato compiutamente.

Perché la sinistra di governo – noi, i socialdemocratici, i democratici – ha costruito la sua epoca d’oro, il suo secolo, proprio agendo dentro i confini dello Stato nazionale.

È a questa dimensione che – coi partiti, i sindacati, le cooperative – noi sinistra di governo abbiamo dato una “organizzazione” al capitalismo, riuscendo al tempo stesso a consentirgli di sprigionare il suo dinamismo e ad impedirgli di travolgere la coesione sociale. La “distruzione creatrice” del capitalismo è stata disciplinata grazie al “governo” socialdemocratico: piena occupazione e stato sociale. Cioè, lavoro, più sanità, istruzione e previdenza. Il secolo socialdemocratico.

Ma tutto ciò viene sconvolto, quando la nuova rivoluzione tecnologica crea le premesse per la globalizzazione: il tempo e lo spazio della “distruzione creatrice” cambiamo radicalmente. La distruzione avviene qui, in Occidente, e ora. La creazione – che c’è ed è tumultuosa – è avvenuta prima e altrove, magari in un altro continente.

C’è – a sinistra – chi rinuncia. E si accontenta della protesta e della nostalgia: vade retro globalizzazione.

Ma, così facendo, mette la sinistra contro “lo sviluppo delle forze produttive”, per dirlo col linguaggio che mi hanno insegnato nel PCI.

Per chi non si vuole arrendere – e noi non vogliamo arrenderci – c’è solo una strada: dare una “organizzazione” al capitalismo globale, esattamente come abbiamo fatto nel secolo scorso, per il capitalismo nazionale.

Ma, per far questo: Europa prima di tutto. Perché questa è la dimensione minima alla quale l’azione di governo deve svilupparsi per poter impedire che la globalizzazione capitalistica faccia troppe vittime e per risollevare da terra quelli che cadono, che non ce la fanno.

Ecco perché, nella piattaforma per il nostro futuro – Europa prima di tutto deve avere un peso centrale.

È difficile, certo. Perché cresce il numero di quanti si dichiarano convinti che l’Europa sia il problema, non la risorsa fondamentale per la soluzione. Ma ci sono ragioni per essere fiduciosi nella possibilità di farcela: guardate a quello che sta succedendo in Francia, per le Presidenziali. Ad una candidata della destra xenofoba e nazionalista, nemica giurata dell’Europa – una candidata purtroppo certa di andare al ballottaggio – sembra possa contrapporsi con successo un candidato che ha presentato in questi giorni un programma fieramente europeista, che prevede – dopo 63 anni dalla decisione della Francia di far fallire la proposta di dar vita alla comunità di difesa europea –  la costruzione del sistema di difesa europeo…

Nelle manifestazioni di Macron ogni bandiera francese è affiancata dalla bandiera europea, in una certosina ricerca della contrapposizione frontale al nazionalismo estremista di Le Pen.

Vincerà? Non lo sappiamo. Ma una cosa è già certa: il suo esempio dimostra che – se vogliamo garantire un futuro alle nostre idee e ai nostri valori di apertura, di libertà ed eguaglianza – dobbiamo accettare il terreno dello scontro aperto contro la prospettiva di chiusura del populismo nazionalista, di destra o di sinistra che sia.

Dunque, nella nostra piattaforma congressuale, questo dovrà essere l’elemento unificante di ogni nostra proposta, sul piano economico-sociale – dalle politiche per la ricerca fino a quelle per il governo dell’immigrazione -, come su quello istituzionale e su quello della politica estera e di sicurezza: Europa prima di tutto.

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