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Federico Caffè e la solitudine del riformista

Giuseppe De Lucia Lumeno giovedì 1 Dicembre 2016
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“Federico capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio.” E poi un dettaglio: “Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, Come è profondo il mare. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler”. Poche righe del bellissimo libro di Bruno Amoroso, Memorie di un intruso (Castelvecchi Editore, Roma – Settembre 2016), passate quasi inosservate in un mondo che ha sempre più difficoltà ad osservare, a pensare, a cercare di capire.

La scomparsa di Federico Caffè, avvenuta quasi 30 anni fa – la mattina del 15 aprile del 1987 esce dalla sua casa di Monte Mario a Roma, senza lasciare né un messaggio né una traccia, per non farvi mai più ritorno – suscitò, naturalmente, grande clamore e, soprattutto, grande emozione. Un economista di spessore internazionale, docente di Politica economica e finanziaria alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma, nonché consulente di spicco dell’Ufficio Studi di Bankitalia. Tanti gli economisti italiani suoi allievi tra i quali il Presidente della Bce, Mario Draghi e il Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ma anche Marcello De Cecco e Giorgio Ruffolo, Guido Rey e Enrico Giovannini, Giuseppe Ciccarone e Franco Archibugi, Luigi Spaventa e Ezio Tarantelli, Nicola Acocella, Fausto Vicarelli, Nino Galloni e, naturalmente, Bruno Amoroso.

Non è questo né il luogo né il tempo idonei per ricordare Federico Caffè. Lo abbiamo fatto con alcune pubblicazioni e continueremo a farlo come merita un maestro, quale fu. Quello che fa riflettere, ma che ormai, in fondo, non meraviglia più, è come possa passare inosservata, al mondo della “cultura”, il discreto messaggio che, indirettamente e molto velatamente, nel suo libro, Bruno Amoroso vuole inviare. Non è molto importante il fatto in sé, lo scoop, la notizia sensazionale di un’ipotetica riapertura del “caso Caffè” che, comunque, potrebbe essere oggetto di interesse di cronaca, ma perché quella breve frase di Amoroso spiega in maniera chiara quanto semplice e precisa la capacità di lettura del mondo e del suo futuro, in tempi non sospetti, fatta da uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento.

Diverse furono le ipotesi, non appena scomparso, con le quali si confrontarono gli investigatori prima di dichiararne la morte presunta: da quella del rapimento a quella del suicidio. Molti suoi amici ed allievi, nel tentativo di trovarlo, setacciarono per lungo e per largo, e per diverse settimane, la città di Roma senza successo. Ma chi era Federico Caffè? E cosa può dirci ancora oggi quella scomparsa, quella discreta uscita di scena, quel silenzio così profondo e pure così rumoroso? Definire Caffè semplicemente un economista è, evidentemente, estremamente riduttivo. E’ stato prima di tutto un intellettuale dall’approccio interdisciplinare che sapeva, come pochi altri, tenere insieme economia, politica, storia, letteratura e musica, fornendo analisi originali che mostravano la centralità del suo interesse nel benessere mondiale che scaturiva da qualcosa di spiritualmente indefinibile. Il suo era prima di tutto un interesse per la persona, per cosa pensa, per cosa fa e a cosa aspira il singolo individuo. Un economista umanista, fiero keynesiano, radicalmente avverso al tecnocraticismo, per il quale “l’economia è un importante strumento al servizio del benessere delle persone” e non viceversa, potremmo aggiungere, noi. Possiamo oggi, leggendo quelle parole di Amoroso, avere la certezza che Federico Caffè, avendo capito prima di tutti quello che il mondo sarebbe diventato in pochi anni, decise di farsi da parte. A rileggere i suoi articoli o le sue lezioni si resta stupefatti di come riuscì a capire, e con tanto anticipo, il senso di marcia che l’umanità stava imboccando, una direzione diametralmente opposta a quella da lui auspicata e per la quale, fin da giovane antifascista, aveva lavorato.

Non fu ucciso né si suicidò, ma aveva chiaro che non avrebbe avuto più nulla da dire a quel nuovo mondo che si stava, ancora in maniera velata, ma non per lui, trasformando in maniera così radicale e per questo decise, in punta di piedi, di fare un passo indietro. Preferì il silenzio e l’ascolto al rumore e alla sordità che sarebbero diventate le principali caratteristiche del nuovo secolo. Vide e previde. Il suo profondo senso etico lo condussero ad una scelta forte, drastica e, paradossalmente, molto rumorosa. La sua scomparsa, la sua uscita di scena così improvvisa, almeno nelle modalità, non furono, ed oggi ne abbiamo le prove, una fuga. Troppo alto, in lui, il dovere morale per fuggire. Scomparendo lancia il suo grido, urla al mondo la sua solitudine che non è solitudine personale ma politica, culturale, intellettuale, è quella che lui stesso aveva definito la “solitudine del riformista”.

Non si può fare, lo sappiamo. Ma la tentazione di provare ad immaginare il pensiero di Federico Caffè, oggi, è troppo forte. Cosa direbbe lui che pensava, come scrisse, “che il modo concreto di tenere alte le aspirazioni e il bisogno di cambiamento non è quello di un nuovo modello di sviluppo ma di riprendere il cammino avviato con la stesura della nostra Costituzione che, come è stato ricordato, sancisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano, di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini”? Forse, non risponderebbe. Forse, continuerebbe ad ascoltare Gustav Mahler, forse, i profetici Lieder eines fahrenden Gesellen, canti di un uomo in cammino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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