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Grillo, il referendum e il vincolo di mandato

massimo pinardi lunedì 17 Ottobre 2016
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grillo

La recente kermesse di Palermo ha fornito al partito di Grillo l’occasione per presentare le leggi che gli attivisti cinquestelle vorrebbero vedere adottate in caso di loro vittoria.

I desiderata del popolo grillino sono stati rilevati e certificati dalla piattaforma informatica “Rousseau” di proprietà della ditta “Casaleggio e associati”.

I provvedimenti che spiccano in vetta ad una lunga lista di proposte, tra le quali è rinvenibile l’introduzione in Costituzione del vincolo di mandato.

Il vincolo di mandato consiste nel condizionare la permanenza nel ruolo di parlamentare al rispetto del programma elettorale e alla permanenza nel partito per i quali si è stati eletti e che la nostra Costituzione esclude esplicitamente e categoricamente (art. 67: Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato).

Cerchiamo di ragionare.

Il programma con il quale il candidato si presenta all’elettore è certamente importante; non esaurisce tuttavia tutte le attese che l’elettore ripone nel suo eletto. Non esiste, neppure in teoria, un programma che possa prevedere e fornire risposta a tutti i possibili accadimenti dei cinque anni di durata della legislatura. Alla persona cui affida la guida della nazione (in concorso con gli altri eletti), l’elettore riconosce la capacità di valutare l’eventuale inadeguatezza del programma a rispondere ai nuovi e non previsti problemi o situazioni, e quindi di apportare le necessarie correzioni. Si vota un programma ma anche e soprattutto una persona alla quale conferiamo la propria fiducia.

I cambiamenti di scenario e gli imprevisti possono essere gravissimi e drammatici. In caso di divergente valutazione sulle posizioni da tenere tra il mio eletto e il partito di appartenenza, è giusto che alla persona che ha ricevuto il mandato da me (e da altri semplici elettori come me) venga revocato lo status di parlamentare dall’assemblea del suo gruppo? O dalla segreteria di un partito?

Nel caso del partito grillino, il problema neanche si pone: il parlamentare, rappresentante della Nazione ai sensi dell’art. 67, deve rispondere a Lui, al supremo garante e capo politico oppure, in sua vece, al titolare di una s.r.l. pervenuto ai vertici della politica italiana per via ereditaria.

Sempre in questo caso, se si associa l’inappellabile diritto di revoca del mandato da parte del dominus del partito alla conclamata aspirazione al conseguimento della maggioranza assoluta del parlamento, si comprende bene quale sia l’orizzonte degli eventi che il comico genovese prospetta agli italiani: un parlamento ricondotto al ruolo di Gran Consiglio del Grillismo, pilastro di una conquistata definitiva, totalitaria stabilità.

La cosa è inaccettabile non solo perché proposta con la consueta tracotanza da Beppe Grillo: la libertà del parlamentare nell’esercizio del proprio mandato non può essere conculcata dall’arbitrio di chicchessia, che si tratti di persona, di segreteria o di assemblea di iscritti. Verrebbe meno il principio inalienabile della rappresentanza dell’intera nazione, che la Costituzione conferisce al parlamentare eletto.

Ma detto questo, e ribadita la fermissima convinzione che il mandato vada svolto nella piena e totale libertà, avendo l’eletto come arbitro la propria coscienza e, a fine mandato, il proprio elettorato, non sarebbe onesto sorvolare sulla pessima e troppo diffusa prassi del “cambio di casacca”.

Il fenomeno è in una certa misura inevitabile; sarebbe lungo e non esaustivo l’elenco delle possibili motivazioni (nobili e meno nobili) alla base di un eventuale riposizionamento politico di un parlamentare. In un certo senso, un male necessario, come quelli che derivano dallo stato di libertà, del quale non tutti sanno fare buon uso, senza che ciò debba portare a limitazioni della libertà di tutti.

Si può tuttavia osservare che, oggi, i regolamenti parlamentari favoriscono buona parte dei passaggi cui assistiamo, consentendo la nascita di nuovi inediti gruppi ai quali vengono riconosciuti status e sostegni finanziari al pari dei gruppi espressi dall’esito elettorale.

Un disincentivo il questo senso sarebbe auspicabile: ogni parlamentare dovrebbe essere inserito nel gruppo del partito con il quale è stato eletto. Eventuali fuoruscite non dovrebbero dare luogo alla nascita di nuovi gruppi e l’eletto che esce dal gruppo di origine resta in parlamento come parlamentare indipendente, senza acquisire benefici particolari.

Un’ultima considerazione di natura referendaria, rivolta a quanti, in buona fede, propendono per la bocciatura della riforma della Costituzione ritenendo che questa ne violi i principi fondativi.

I grandi sostenitori del NO (Grillo, Salvini e anche l’impagabile Brunetta) auspicano – tra le altre cose –  l’introduzione del vincolo di mandato. Auspicano un parlamento eterodiretto, condizionato dal volere di pochi leaders, padroni assoluti del mandato popolare, coperti magari, nella peggiore delle ipotesi, anche da un contratto aggiuntivo che prevede una penale di 150.000 euro a favore di un ente privato.

Gli amici democratici che nutrono ragionevoli e legittime perplessità verso una riforma che può non piacere in alcune sue parti ma che non tocca minimamente i principi fondamentali della Carta sulla quale si basa la nostra convivenza democratica, riflettano su quali tipi di compagni di viaggio si ritrovano accanto

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