di Umberto Ranieri
Si conclude la drammatica campagna elettorale per la Casa Bianca del 2024.
Il livello di conflittualità della società americana è così profondo che gli Usa appaiono, a metà degli anni Venti del XXI secolo, un paese attraversato da “una guerra civile fredda”. Perché la competizione politica negli Stati Uniti ha assunto questa forma? Cosa è accaduto se, a dispetto della retorica incendiaria, scorretta e volgare dispiegata da Donald Trump, la sua popolarità non è calata e su alcuni temi fondamentali gli elettori sembrano preferirlo?
Il suo successo è il risultato di un mutamento profondo dell’economia e della società americane le cui conseguenze lui ha saputo interpretare. La rivoluzione tecnologica e la globalizzazione hanno cambiato la struttura della economia americana, la distribuzione del reddito, della ricchezza, le aspettative. Con la globalizzazione la crescita economica c’è stata ma, ricorda Nathalie Tocci, in un mercato senza regole e ne hanno beneficiato le economie dei Paesi emergenti a partire da quella cinese che produceva a costi stracciati e senza tutele del lavoro né dell’ambiente.
Ciò creava deindustrializzazione nei Paesi occidentali dove la crescita dei profitti non si traduceva in maggiore benessere per i lavoratori che vedevano i salari languire se non addirittura sparire con i loro posti di lavoro. La contraddizione più grande si verificava nel cuore della democrazia liberale: gli stati Uniti d’America. Trump non solo vinceva nel 2016 le primarie del partito repubblicano ma si imponeva ad Hillary Clinton, quintessenza dell’establishment americano.
Il fenomeno Trump nasce in questo contesto ed è così radicato che nemmeno i suoi guai giudiziari lo hanno scalfito. Il trumpismo è diventato un elemento fisiologico della opinione pubblica americana. Con il motto “Make America Great Again” ha fornito una identità politica ad un sentimento nazionalista che aveva cominciato a farsi sentire negli Usa sin dagli anni Novanta del secolo scorso.
Tendenze politiche sovraniste e illiberali sono presenti nella società americana fin dalla sua nascita. Il sovranismo trumpiano ha una variegata genia di precursori. Precursori che pure in passato avevano fatto degenerare il patriottismo in nazionalismo isolazionista e xenofobo con venature di suprematismo bianco. The Economist del 10 ottobre ha sostenuto che tra Trump e Harris non ci sarebbero molte differenze nelle politiche pubbliche, che si sarebbe prodotta una sorta di “Trumpification of America policy”.
In realtà le cose stanno diversamente. La Harris ha inteso fornire risposte ai timori e alle ansie che pervadono la società americana su temi come l’onda migratoria, la sicurezza, le conseguenze della transizione green. Strada obbligata se si intende conquistare la maggioranza degli elettori. Vedremo se lo sforzo di contrastare su questo terreno le strumentalizzazioni e le menzogne di Trump avrà successo.
Andrebbe ricordato tuttavia ai redattori del settimanale britannico che su una questione in particolare la differenza tra i due candidati è netta. La politica estera. Il mondo sarà un luogo turbolento negli anni a venire. Incalzeranno problemi globali che potranno essere affrontati solo attraverso la cooperazione. L’opposto di quanto sostiene Trump. L’unilateralismo, prima ancora che l’isolazionismo, connota l’approccio dell’ex presidente alla politica internazionale. Trump si è ritirato dall’accordo sul nucleare stipulato insieme agli europei con l’Iran; la stessa linea più dura di Trump con la Cina è stata episodica e non armonizzata con gli alleati; una sua presidenza renderebbe molto più difficile una risposta internazionale coordinata al peggiorare della crisi climatica. Nei rapporti con Israele l’Amministrazione Trump è stata accondiscendente alla politica del governo Netanyahu. Un governo sostenuto dalla estrema destra e dal movimento messianico che Rabin definiva “il cancro della democrazia israeliana”.
Con Trump alla Casa Bianca sarebbero infine enormi i problemi di gestione del rapporto tra Europa e Stati Uniti. Trump non crede nelle alleanze e ancor meno nella dimensione strategica del rapporto con gli europei. Il ritiro del sostegno degli Usa all’Ucraina incoraggerebbe l’avventurismo di Putin. Incrinando i rapporti degli Stati Uniti con gi europei Trump favorirebbe il sovranismo e il nazionalismo, potrebbe esacerbare i contrasti all’interno dell’Europa incoraggiando i nazionalisti allineati con la Russia come l’Ungheria e la Serbia.
È acuta la osservazione di Sergio Fabbrini quando scrive che tra Trump e Orban non c’è alcuna differenza, conservatori illiberali vogliono società chiuse ed omogenee gerarchicamente controllate da un capo non vincolato a rispettare lo Stato di diritto. Occorrerà tempo per liberare la vita pubblica statunitense dalle tossine prodotte dal nazional populismo dell’ex presidente.
Si sbaglierebbe tuttavia a sottovalutare il ruolo assolto da Kamala Harris. La vicepresidente degli Stati Uniti è riuscita a riaprire una elezione che sembrava persa, ha retto con dignità, efficacia e ironia agli attacchi sconci e sessisti che le sono stati rivolti. Ha delineato una prospettiva di riforme e valori, ha raccolto un desiderio, malgrado tutto, presente in tanti ambienti di superare la conflittualità distruttrice che domina la politica statunitense. Di più difficile potesse fare. Vedremo il verdetto degli elettori. Come nel 2020, anche quest’anno potrebbe essere decisivo il voto delle elettrici.
Presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa. Docente a contratto, insegna Storia dell’Europa all’Università La Sapienza di Roma, dove, Economia dei paesi in via di sviluppo all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Politica estera dell’Unione europea all’Orientale di Napoli. È stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature (XII, XIII, XIV, XV) eletto nelle liste Pds, Ds e, infine, Pd. È stato anche Presidente della Commissione “Affari esteri e comunitari” della Camera dei deputati. Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri dal 1998 al 2001 nei governi D’Alema I, D’Alema II e Amato II.