di Alessandro Maran
I democratici hanno perso clamorosamente le elezioni del 2024. Devono reinventare il loro partito in toto?
Sul
New Yorker, Peter Slevin esamina la questione, notando un certo ottimismo a livello statale. I democratici hanno perso a livello nazionale, ma nel Wisconsin – epicentro della rinascita conservatrice durante gli anni di Obama – hanno visto alcuni progressi. Il che suggerisce che non tutto è come sembra.
Slevin scrive: “Dieci candidati all’Assemblea (…) hanno rovesciato i seggi repubblicani dopo che la Corte Suprema dello Stato aveva ridisegnato pesantemente i confini dei distretti elettorali. Sebbene il GOP controlli ancora la legislatura statale, i suoi margini si sono notevolmente ridotti (…) la senatrice Tammy Baldwin, una democratica molto apprezzata, ha vinto un terzo mandato. Sebbene Kamala Harris abbia perso le elezioni, il voto popolare e sette swing states a favore di Donald Trump, il messaggio – persino nel Wisconsin, dove Harris ha perso – non è così lineare. Lo stesso vale per la Carolina del Nord, dove Harris è stata sconfitta da Trump ma i democratici hanno vinto le altre sei competizioni statali. Dei cinque stati chiave in cui si votava per il Senato, i democratici ne hanno vinti quattro, perdendo solo quello della Pennsylvania, per soli quindicimila voti, ovvero lo 0,2 percento. In altre parole: Donald Trump ha vinto il voto popolare nazionale, ma se invece centoquindicimila degli otto milioni di elettori di Trump in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania avessero votato per Harris, sarebbe andata lei alla Casa Bianca” (
https://www.newyorker.com/…/how-much-do-democrats-need…).
I democratici hanno problemi in abbondanza, ma questo forse implica che i democratici devono affrontare un problema nazionale, non locale. Forse Harris ha condotto una campagna troppo cauta o non ha offerto soluzioni abbastanza coraggiose. Forse i democratici da fuori – non degli stati e dei distretti in cui vivono gli elettori – hanno più di un problema di branding. James Carville, il noto stratega democratico, si è espresso sul
New York Times in merito a quello che considera il principale difetto tattico della campagna nazionale dei democratici per il 2024: “Abbiamo perso per una ragione molto semplice: ‘It was, it is, and it always will be the economy, stupid’. Dobbiamo iniziare il 2025 con questa verità come nostra stella polare politica e non farci distrarre da nient’altro (…) Trump ha vinto il voto popolare mettendo la rabbia economica degli americani al centro dell’attenzione. Se ci concentriamo su qualsiasi altra cosa, rischiamo di sprofondare nell’abisso” (
https://www.nytimes.com/…/democrats-donald-trump…).
Nel frattempo, la base democratica sembra più instabile di prima. Come scrive Annie Lowrey su
The Atlantic, il 2024 ha visto l’”ascesa della destra sindacale”. I democratici hanno contato sul sostegno dei sindacati per decenni e hanno perseguito politiche economiche favorevoli ai sindacati. Sicuramente, la politica culturale, cioè le lotte politiche sul senso e l’identità che hanno luogo all’interno della società, dove diversi gruppi sociali negoziano questioni di appartenenza ed esclusione, potrebbe avere qualcosa a che fare con i progressi elettorali dei repubblicani dell’era Trump tra la classe operaia, compresi i membri dei sindacati. Ma Lowrey scrive che l’agenda fiscale pro-lavoratori dei democratici – tasse più alte per i ricchi, “spesa più progressista” – “non è la stessa cosa di essere dalla parte dei lavoratori. E il partito ha perso elettori perché è diventato più corporativo, pro-globalizzazione e cosmopolita”. Tra alcuni elettori sindacalizzati, scrive Lowrey, i democratici sono perseguitati elettoralmente dalla firma del NAFTA da parte di Bill Clinton, dal fallimento di Barack Obama nell’approvare una “card check law”, sul controllo delle adesioni, che avrebbe reso più facile l’organizzazione sindacale e dal successivo sostegno al piano di libero scambio della Trans-Pacific Partnership (
https://www.theatlantic.com/…/republicans…/681103/).
Su Jewish Currents, David Klion sostiene che i democratici, a loro discapito, rappresentano l’epoca d’oro dell’establishment del passato: “Sebbene Trump abbia continuato a usare lo slogan che guarda al passato ‘Make America Great Again’, in realtà ha fatto campagna per un cambiamento radicale (…) Nel frattempo, mentre la campagna di Harris ha tentato di battere Trump con ‘We Are Not Going Back’, (i democratici) erano la parte che sembrava vagheggiare un’epoca tramontata e mitizzata di grandezza americana: l’epoca del consenso liberale bipartisan della Guerra fredda, caratterizzata dalla cortesia e da un establishment fiducioso. Questo è il passato a cui Harris si è richiamata quando ha visitato gli stati chiave con Liz Cheney e ha promesso di includere i repubblicani nel suo gabinetto, e quando si è presentata come un pubblico ministero che avrebbe sostenuto lo stato di diritto in contrasto con le molteplici condanne per reati gravi e il flagrante disprezzo di Trump per la Costituzione” (https://jewishcurrents.org/we-are-never-going-back-trump…).
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.
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