di Alberto Bianchi
In un momento storico in cui il disordine mondiale sembra intensificarsi, con conflitti sempre più complessi e nuovi processi geopolitici in atto in Europa e nel mondo, è indispensabile affrontare con lucidità il tema del riarmo comune dell’Ue e dei singoli stati che la compongono. Troppo spesso questo concetto è frainteso o volutamente strumentalizzato o caricato di significati emotivi che ne alterano il senso reale.
In premessa, dunque, quando si parla di riarmo in relazione a ciò che sta avvenendo in questo tornante della storia – nel cuore dell’Europa con la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina o in Medio Oriente o in altri scacchieri internazionali – il riferimento non è alla questione della corsa agli armamenti o a un’escalation militare incontrollata; al contrario, il riferimento è ad una strategia ponderata, finalizzata alla sicurezza comune e nazionale, alla stabilità e alla capacità di difendere valori democratici e di libertà fondamentali. Una politica di difesa coerente deve partire da una definizione chiara di cosa intendiamo: quali sono gli obiettivi? quali le minacce reali? quali le risorse necessarie e sostenibili?
Per dirla diversamente: riarmo sì, ma quale riarmo? Se si vuole costruire un’Ue forte e capace di affrontare le sfide globali, occorre prima di tutto definire con precisione cosa si intende per riarmo, distinguendo tra deterrenza, protezione e capacità operativa. Solo così si potrà sviluppare una politica di difesa che sia non solo efficace, ma anche trasparente e condivisa. E con il piano comune Readiness 2030 e le politiche di riarmo militare nazionale che stanno intraprendendo alcuni paesi dell’Unione, il quadro si è messo in movimento.
Dunque: quale riarmo? La domanda impone che dal lato europeo dell’Alleanza atlantica e della Nato si superi la visione limitata che concepisce e riduce l’impiego delle forze armate europee, comuni o nazionali che siano, esclusivamente a missioni e ruoli di stabilizzazione post-conflitto.
Ad onor del vero, gli stessi Stati Uniti hanno per lungo tempo imposto (non solo accettato) che l’Europa o i singoli paesi europei – in scenari di guerra – svolgessero al più un compito di forza d’intendenza, se così si può dire, almeno fin quando l’America è stata in grado ed ha preteso di avere il monopolio – meritato per altro, sia chiaro – di guida egemone dell’Occidente, assicurando la propria iniziativa strategica e militare, contemporaneamente e su scala mondiale, in diversi teatri di conflitto.
Ma da tempo non è più questo lo stato delle cose, né per gli Stati Uniti, né per l’Europa. Ed allora è qui il salto di mentalità che gli europei devono fare. È tempo, dunque, che l’Unione ed i singoli stati passino a pensare e pensarsi per capacità di combattimento, ovverosia sviluppare una strategia chiara su come affrontare i conflitti futuri e le competenze e ruoli necessari richiesti per uno scenario di battaglia da oggi al 2030-2040 e, di conseguenza, su quali sistemi e strumenti indispensabili puntare da subito per tali sfide.
Non tutti i paesi dell’Unione, però, hanno le medesime capacità e risorse militari e, pertanto, da questo punto di vista occorre superare tale asimmetria con una difesa comune europea a due velocità, con il primo cerchio dei paesi più solidi militarmente (Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna) che puntino ad una più rapida centralizzazione delle linee di comando e coordinamento delle proprie dotazioni ed iniziative militari, anche in raccordo diretto con il Regno Unito. Gli altri seguiranno con tempo e modalità successive.
È solo nei termini descritti in precedenza che i riformisti dell’area progressista, che aspirino ad una sinistra di governo, possono condurre in Italia efficacemente – con realismo e pragmatismo – la battaglia politica su due fronti: verso le forze di centro destra oggi al governo, perché non basta certo portare la spesa militare al 2% del Pil se non si è in grado di dire per quale riarmo ci si impegni come nazione e in Europa; e verso quelle forze della sinistra populista e massimalista del cosiddetto partito unico in gestazione tra Pd schleiniano, M5S e Avs, dedite da tempo a parlare di difesa comune europea senza riarmo, che è come chiedere ad una orchestra di suonare una sinfonia senza strumenti musicali o ad un aereo di volare senza carburante o di pensare senza pensieri.
Sessantacinquenne, romano, studi classici, lavora presso Direzione Trenitalia spa, gruppo Fs italiane. Sin da giovane, militante della sinistra: prima nelle fila della Federazione Italiana Giovanile Comunista (FIGC), poi nel PCI (componente migliorista), fino allo scioglimento del partito. Successivamente ha aderito al PDS, poi DS. Attualmente è socio ordinario di Libertà Eguale.