di Giovanni Cominelli
Medioriente, la guerra e il ruolo dell’Unione Europea: la storia e il fallimento del progetto “due popoli, due stati”, e una speranza da costruire
Quando il 15 maggio del 1948 i soldati di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq e gruppi di spedizione di altri Paesi arabi entrarono nella Palestina a mandato britannico non lo fecero certamente nel nome di una “nazione palestinese”.
Volevano semplicemente spartirsi pezzi di territorio del Mandato britannico confinanti con ciascuno degli Stati e “cacciare a mare gli Ebrei”, che sotto la guida di Ben Gurion avevano proclamato proprio il giorno prima lo Stato di Israele.
Non si rassegnarono mai all’esistenza dello Stato di Israele. Questa è stata la scelta storica degli Arabi, che ha condizionato tutti gli anni successivi.
Del resto la Lega araba già nel 1946 si era opposta al disegno anglo-americano di un insediamento statale del movimento sionista in Palestina.
Le motivazioni erano, in primo luogo, lucidamente antropologiche: “il fratello ebreo”, “il cugino ebreo” se n’era andato in Occidente ed era tornato non più “orientale”, ma “occidentale”, con una tavola di valori antagonistica rispetto a quella del mondo arabo-islamico: o troppo filo-capitalistica o troppo socialistica.
Si trattava di un innesto inaccettabile dal punto di vista delle classi dirigenti arabo-ottomane, promosso per di più da Potenze coloniali.
Era invece visto con favore dall’Unione sovietica, che aveva votato a favore all’Onu, perché lo immaginava, appunto, come un potenziale presidio socialistico e anti-imperialistico piantato in un Medio Oriente ancora a egemonia britannica e francese.
L’invenzione della nazione palestinese
L’invenzione della nazione palestinese arriva solo nel 1964, quando la Lega araba promuove la costituzione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – l’OLP – fondata il 28 maggio 1964 a Gerusalemme Est.
Lo Statuto dell’OLP dichiara che “la Palestina all’interno dei confini che esistevano al momento del mandato britannico è una singola unità regionale”, dentro la quale è vietata “l’esistenza e l’attività del Sionismo”.
L’esistenza di Israele non è prevista. Il mito che alimenta la mobilitazione irredentista fin dall’inizio è quello del “ritorno”.
La storia del secondo dopo-guerra mondiale è piena di milioni di profughi: dalla Dalmazia, alla Polonia, alla Germania, alla Corea, al Pakistan… I milioni di profughi generati dai conflitti sono stati più o meno faticosamente integrati.
Gli Stati della Lega araba hanno fatto, invece, una scelta politica diversa: hanno rinchiuso permanentemente i profughi nei campi, a spese proprie e dell’ONU-UNRWA, così da farli diventare fin da subito depositi sterminati di odio, di mobilitazione, di terrorismo da usare contro Israele.
Nel 1970 “i profughi” residenti in Giordania tenteranno, sotto la guida dell’OLP, un colpo di stato per trasformare la Giordania hascemita in uno stato palestinese. Il re giordano reagì con i massacri di settembre.
L’OLP ha adottato solo nel 1988 la linea “Due popoli, due stati, con capitale Gerusalemme Est”.
Nel 1993, l’OLP riconosce lo Stato di Israele, a seguito degli accordi di Oslo del 20 agosto e del 13 settembre 1993. Nasce l’Autorità Nazionale Palestinese. Una delle conseguenze è l’affidamento di Gaza, già amministrata dagli Egiziani dal 1948 al 1967, all’ANP.
La fine del disegno “Due popoli, due stati”
Che cosa ha bloccato il tormentato cammino verso “Due popoli, due stati”? Semplicemente, che nessuna delle parti in causa lo vuole: la storia che sta alle spalle ha pesato sul presente e ha fatto crollare, fino ad ora, tutti i ponti.
Il 23 settembre del 1993 il Parlamento israeliano votò gli accordi di Oslo: 61 a favore, 50 contro, 8 astenuti. Una gran parte della popolazione israeliana era totalmente contraria agli accordi di Oslo. In quel clima maturò l’assassinio di Yitzak Rabin nel 1995.
Il Likud di Netanyahu e i partiti suoi alleati di estrema destra, religiosa e no, hanno praticato, di lì in avanti, una politica di colonizzazione brutale in Cisgiordania, che nei loro deliri fondamentalisti prevede la cacciata degli Arabi dalla Terra di Canaan, secondo lo schema biblico “Dal Nilo all’Eufrate”.
Se il popolo di Israele era diviso, non meno lo erano i Palestinesi. Hamas, il Movimento per il Jihad islamico in Palestina, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, le cosiddette ”organizzazioni del rifiuto” respinsero gli Accordi di Oslo, perché legittimavano l’esistenza di Israele.
Arafat, alla fine, non ebbe il coraggio di fare approvare gli accordi. A Gaza Hamas scatenò una guerra civile sanguinosa contro l’ANP, instaurò una violenta dittatura e nel 2006 vinse le elezioni. Sono state le ultime.
Gaza è diventata un Emirato sciita. Non senza la ottusa complicità di Netanyahu, che aveva calcolato di attizzare le divisioni all’interno dell’ANP per controllare la Cisgiordania palestinese, di “recintare” Gaza e di rinviare sine die la soluzione della questione palestinese.
La questione palestinese alla luce della mezzaluna sciita
Mentre la Lega Araba ha finito per accettare l’esistenza dello Stato di Israele – con in testa l’Egitto nel 1979, la Giordania nel 1994, gli Accordi di Abramo del 13 agosto 2020 – nell’anno 1979 compariva sulla scena politica del Medio Oriente un nuovo protagonista, Khomeini.
La bandiera della distruzione dello Stato d’Israele, caduta dalle mani della Lega Araba, è stata raccolta dall’Iran sciita. La questione palestinese diventava, nelle mani di Khomeini, un tassello di una strategia globale più ampia, che lui spiegò nella Lettera a Gorbaciov nel Gennaio del 1989: prevedeva il crollo del comunismo, del capitalismo – e perciò metteva in guardia Gorbaciov dal fascino del “verde giardino del mondo occidentale” – e l’ascesa mondiale dell’Islam, in versione sciita.
Nel 1979 l’Iran rompe i rapporti diplomatici con Israele, rifiutandosi di riconoscerne l’esistenza, e incomincia a costruire la mezzaluna sciita armata, in competizione con l’Islam arabo-sunnita: essa passa, a Nord-Ovest, per l’Iraq – la cui popolazione è a maggioranza sciita – per la Siria e per il Libano, con la creazione di milizie palestinesi in funzione anti-israeliana: Hezbollah.
A Sud-Ovest la mezzaluna si completa con lo Yemen e gli Houthi. Così, la questione palestinese è diventata iraniana.
Una speranza da costruire e il ruolo dell’UE
Oggi il “primum vivere” di Israele esige l’eliminazione politico-militare di Hamas – che deve restituire gli ostaggi a Israele e la democrazia ai Palestinesi di Gaza – e di Hezbollah, che deve ritirarsi oltre il fiume Litani.
Le loro “politiche del martirio” della propria gente, l’uso di scuole, ospedali e chiese come depositi di armi, rifugi di armati e basi di lancio di migliaia di ordigni contro il territorio di Israele e la necessaria risposta militare israeliana hanno già provocato migliaia di morti.
Ma eliminare Hamas implica un’alleanza di Israele con la Lega Araba e, quindi, con l’ANP e con la società civile palestinese. Che non è riducibile al gruppo terroristico che l’ha occupata. Ciò richiede il blocco e il rientro della colonizzazione israeliana in Cisgiordania.
E se Teheran è la testa del serpente da schiacciare, ciò potrà accadere solo con la collaborazione del mondo arabo-sunnita e dell’intero Occidente.
In questo Occidente l’Unione europea manca all’appello. Si muovono i singoli Stati, ciascuno con i propri corti interessi. Nessuno è in grado di costruire da solo nuovi equilibri nel mondo e in Medio Oriente. Non può farlo Netanyahu da solo.
Fu Marco Pannella a lanciare il 18 ottobre 1988, dalle pagine del Jerusalem Post, l’idea dell’integrazione di Israele nell’Unione europea. Ancora nel 2010 affermava che Israele costituiva la speranza “che, in termini politici, sarebbe riuscita ad intervenire per nutrire con forza lo sviluppo economico, sociale, politico, democratico dei Palestinesi”. È, finora, la migliore immaginazione politica praticabile.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.