di Stefano Ceccanti
Intervento al Convegno dell’associazione ex consiglieri regionali e parlamentari della Basilicata – Matera, 25 giugno
Partecipazione democratica e sistemi elettorali
Premessa- Poche certezze
Contrariamente a quanto spesso si pensa, questo è un tema su cui le certezze sono relativamente poche.
La ricognizione puntuale più recente sulle cause dell’astensionismo, con ampio riferimento alla letteratura italiana ed europea, è stata proposta qualche mese fa da Vittorio Mete e Dario Tuorto per Il Mulino col volume “Il partito che non c’è. L’astensionismo elettorale in Italia e in Europa”.
Essi affrontano anzitutto quelli che chiamano i fattori di contesto, suddivisi in varie categorie.
La prima è appunto quella dei fattori istituzionali, tra cui ricomprende l’eventuale obbligatorietà del voto, il tipo di sistema elettorale, lo svolgimento contestuale di elezioni, le modalità di iscrizione nelle liste e gli aspetti procedurali e logistici del voto. Nei fattori di contesto rientrano poi anche quelli politici, come la competitività dei candidati, e quelli delle caratteristiche socio economiche complessive.
Per completezza segnalo che la seconda categoria è quella delle varie cause individuali del non voto.
Al termine della ricognizione complessiva gli Autori chiariscono che la ricerca del Sacro Graal, di fattori di validità generale, non è stata risolutiva.
L’analisi puntuale sui fattori istituzionali di Mete e Tuorto
Il capitolo 2 è quello che esamina puntualmente i fattori istituzionali.
Inizia dall’obbligatorietà del voto che, assortita di varie sanzioni, può anche espandere la partecipazione, ma ha varie conseguenze negative, compreso il fatto che buona parte dei forzati del voto tende poi a votare bianca o nulla.
Vi sono poi linee esplicative opposte sulle formule elettorali che finiscono in sostanza per coincidere con le preferenze personali degli autori dei vari studi. Secondo i proporzionalisti la maggiore offerta politica che credibilmente può entrare in Parlamento porterebbe molti a votare sapendo di non sprecare il proprio consenso. Ovviamente ciò aumenterebbe tanto più in caso di assenza di correttivi come premi o sbarramenti. Secondo i maggioritaristi, all’opposto, la maggiore semplicità del sistema, tanto più legata alla personalizzazione del voto coi collegi uninominali e la sua decisività per il Governo, che evita trattative successive da cui risultano programmi difformi da quelli presentati, sarebbe più attrattiva per gli elettori.
In assenza di consenso gli autori del volume invitano allora a procedere ragionando solo per Paese e per periodo storico: se non sono possibili spiegazioni generali, si tentino quanto meno risposte parziali.
Il capitolo poi si sofferma sul cosiddetto election day che può avere effetti simili al voto obbligatorio: provocare un aumento della partecipazione, bilanciato però da un incremento di bianche e nulle per le consultazioni ritenute meno importanti per l’elettore.
Più consensuali, lo dico, per inciso, sono invece le osservazioni sulle variabili politiche, come la percezione dell’incertezza del risultato, che è indubbiamente un fattore mobilitante molto forte, oltre che sul grado di importanza delle elezioni, dove in genere quelle politiche nazionali sono viste come più rilevanti.
Qualche valutazione più ravvicinata: quattro osservazioni
Volendo proporre qualche orientamento più concreto mi sentirei di proporre le osservazioni seguenti.
La prima è che nella scelta di un sistema elettorale non è detto che il criterio univoco o comunque principale debba essere per forza quello di stimolare una partecipazione maggiore, soprattutto nel breve periodo. La partecipazione oltre che ampia deve essere incidente nel sistema. Se si adotta un sistema che porta il voto degli elettori ad essere scarsamente incidente è anche possibile che sul momento la partecipazione possa essere alta, ma essa può anche girare a vuoto e, quindi, in prospettiva anche diminuire. Scegliere un sistema non è come scegliere dei fuochi di artificio, segnala Diverger, il cui effetto sul momento può essere ottimo, ma poi si limitano a qualche istante isolato di vita del sistema.
La seconda è che, come noto, gli elettori imparano progressivamente ad utilizzare il sistema e che quindi è sbagliato modificarli troppo spesso, soprattutto per ragioni di parte e di breve periodo. “L’ipercinetismo elettorale compulsivo” denunciato dal prof. Fulco Lanchester per le elezioni politiche nazionali specie dalla legge Calderoli del 2005 è un problema e non una soluzione. Ad esempio i sistemi comunali e regionali che nascono da scelte condivise non andrebbero modificati se non con un largo consenso analogo a quello originario. Così come fu un errore modificare la legge Mattarella che soprattutto nella variante Senato (scheda unica, recupero dei migliori perdenti) si era ormai radicata.
La terza è che, sotto il profilo delle formule elettorali, la ragione che ha portato a sistemi selettivi e non più fotografici, ossia la difficoltà dei nostri partiti italiani a stabilire convenzioni condivise come accade invece in altri Paesi per passare dal consenso al potere e alla responsabilità, quello che potremmo chiamare la tesi Ruffilli di costruire sistemi che rendano il cittadino arbitro anche del Governo, resta tuttora valida. La partecipazione alta del primo sistema dei partiti era dovuta a un sistema di appartenenze separate che sono comunque scomparse: tornare indietro a sistemi fotografici non ripristinerebbe affatto quelle appartenenze e quindi non restaurerebbe un’alta partecipazione. Si possono preferire sistemi a premio o quelle imperniate sui collegi uninominali, ma se si pensasse di recedere dall’insegnamento di Ruffilli in nome di una più alta partecipazione si farebbe un errore perché il rendimento del sistema peggiorerebbe e la partecipazione non crescerebbe.
La quarta, dal punto di vista dell’individuazione dei singoli eletti, è che il sistema elettorale nazionale vigente basato sulla compresenza di pochi collegi uninominali di ampiezza enorme e sulla gestione di liste bloccate da parte di partiti oligarchici è forse il peggiore rispetto all’obiettivo di attrarre partecipazione, per cui risulta difficile, anche volendo, peggiorare. La soluzione più chiara, visto quanto detto anche al punto precedente, sarebbe l’aumento considerevole del numero dei collegi uninominali, magari riunendo i parlamentari in un’unica Camera di 600 eletti. Tra questa soluzione ottimale e il pessimo status quo sono probabilmente possibili varie soluzioni intermedie comunque migliorative. Vista l’importanza delle elezioni politiche nazionali viste come quelle più importanti di tutte, esse sono quelle in cui vi è la partecipazione maggiore, pur col sistema peggiore in assoluto. Questo però non è un argomento per non cambiarlo: se infatti si riuscisse a rendere più forte il legame tra elettori e candidato e più chiara la formazione di un Governo in sede elettorale, essa potrebbe ulteriormente crescere.
Una postilla finale: per elevare la partecipazione alle elezioni europee è necessario che il sistema, o perfezionando il metodo dei candidati pre-indicati per la guida della Commissione e/o prevedendo una quota di deputati eletti in un collegio unico europeo, trasmetta l’idea di una vera e propria sfida europea e non più di tanti test nazionali pro o contro i Governi in carica.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.