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Il Sud nella vicenda leghista da Bossi a Salvini

Alfonso Pascale giovedì 6 Settembre 2018
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di Alfonso Pascale

 

Nel dibattito sull’esito elettorale del 4 marzo si è poco riflettuto su come il leghismo, da Bossi a Salvini, si è intrecciato con il fenomeno grillino e su come tale groviglio sia avvenuto intorno ai temi del Mezzogiorno.

Le domande a cui rispondere sono: c’è un nesso tra l’affermazione dei 5 Stelle al Sud e l’espansione della Lega su tutto il territorio nazionale, registrate alle politiche di quest’anno, e la modalità con cui si avviò la rottura del sistema politico della Prima repubblica ad opera della Lega Nord, che prevedeva la progressiva sostituzione della “questione meridionale” con la “questione settentrionale”? Quali elementi di continuità si possono riscontrare nella costruzione di una peculiare visione dell’Italia e della sua storia nazionale, posta in atto dalla Lega di Bossi e confluita nel “contratto” del governo giallo-verde?

Come ha detto vent’anni fa il politico e storico Enzo Santarelli (“Il Sud nella storia della Repubblica”, Intervista a cura di Simone Misiani, in “L’Ora locale. Lettere dal Sud”, a. 1, n. 1 gennaio-febbraio 1997), il Mezzogiorno resta comunque la vera cartina di tornasole con cui misurare le diverse interpretazioni della storia nazionale. E allora vediamo se anche in questo caso, tale criterio funziona.

Ho suddiviso questa riflessione in tre articoli: il primo sull’evoluzione della Lega da Bossi a Salvini; il secondo sui caratteri del movimento di Beppe Grillo; e l’ultimo sull’uso strumentale dei “giorni della memoria” come collante tra Lega e M5S.

 

La preistoria del movimento di Bossi

Come ha opportunamente ricordato Antonio Lamantea nel suo pregevole studio antropologico e critico-letterario “Risorgimento, Unità, Meridione. Per un’Italia da costruire” (Manni, 2012), il fenomeno leghista ha avuto una preistoria, articolata e sostenuta da solida dottrina giuridico-costituzionale, nell’opera e nelle tesi di Gianfranco Miglio. Già a partire dal 1980, lo studioso aveva teorizzato una revisione della Costituzione in chiave federalista come unica soluzione dei problemi della società italiana. I due percorsi fondamentali che egli aveva individuato erano il decisionismo dello Stato sovrano e il pluralismo dei corpi intermedi. E la sua critica al sistema politico della Repubblica dei partiti era fondata sulla denuncia dei guasti di un modello di sviluppo fondato sull’assistenzialismo e l’”individualismo irresponsabile”.

Nei primi anni Novanta il pensiero politico di Miglio si era corroborato di idealizzazioni solidaristiche, nel culto di un’etica civile e nell’attenzione alle politiche sociali. Elementi fatti emergere con forza, nel dibattito pubblico del capoluogo lombardo, per iniziativa del Cardinal Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano, il quale, contemporaneamente all’iniziativa culturale svolta dallo studioso, aveva costituito la Commissione “Giustizia e Pace”, con la finalità di potenziare gli aspetti solidali della società, il valore istituzionale dell’associazionismo e la fede del cittadino nello Stato.

Miglio aveva introdotto nel suo modello federalistico proprio tali elementi, suscitando così un vivo interesse del mondo cattolico al suo progetto. Non va, peraltro, sottaciuto che l’orientamento federalistico in Italia si era alimentato, fin dal Risorgimento, di apporti notevoli della tradizione cattolica, come quelli di Vincenzo Gioberti e Luigi Sturzo.

 

Bossi e la questione settentrionale

Quando Umberto Bossi formalizzò nel 1991 il movimento che aveva fondato (la Lega Nord), aveva accanto a sé Miglio come curatore del suo programma di riforme istituzionali. Ma il sodalizio tra i due, nel giro di pochi anni, si ruppe proprio sugli aspetti solidaristici del modello federalistico. Una rottura che non incrinò più di tanto la credibilità del progetto sul piano dell’architettura istituzionale, ma ne fece emergere gli aspetti regressivi, etnolocalistici ed egoistici.

La nascita della Lega Nord servì a dare risonanza e rappresentazione alla “questione settentrionale”. Tale problematica e il movimento politico che la sostiene significarono, in origine, secessione; divisione dell’Italia in due; insopportabilità, dunque, per il Nord, del peso del Mezzogiorno, improduttivo, preda dell’illegalità criminale, parassita e succhiatore immeritevole delle risorse del Nord; e poi, collegamento diretto del Nord coi processi di globalizzazione, con le regioni ricche d’Europa; rigetto del problema della formazione di una coscienza nazionale e dello stesso problema di un dualismo italiano, ovvero del tema dominante intorno al quale si era formata la coscienza storico-politica della democrazia repubblicana.

Infatti, per un lungo periodo e per un’ampia parte del Paese, la rappresentazione della storia nazionale era fondata su un principio di unità dell’Italia che si voleva costruire a partire dal Mezzogiorno. Su tale rappresentazione faceva perno l’azione politica dei democratici italiani, delle più diverse origini culturali e politiche. Tra i più insigni si possono citare per i comunisti Gramsci, Sereni, Amendola e lo stesso Togliatti, per il riformismo cattolico Sturzo, Vanoni, Saraceno e Pastore, per i liberal-democratici Dorso, La Malfa, Compagna e Galasso, a cui aggiungere ulteriori personalità come Nitti, Salvemini, Rossi-Doria, Giorgio Ceriani Sebregondi, Olivetti, Carlo Levi, Scotellaro, Zanotti-Bianco, Danilo Dolci e Angela Zucconi, tutti ovviamente con visioni differenti a cui corrispondevano soluzioni diverse. In tale orizzonte, giocava un ruolo preminente la dimensione nazionale della cultura meridionale e dei ceti dirigenti del Mezzogiorno. Naturalmente, nessuno sosteneva la secondaria importanza del Nord rispetto al Sud, ma per essi la vera unità dell’Italia sarebbe nata dal superamento del dualismo. Per essi, in altre parole, non ci sarebbe mai stato vero sviluppo del Paese senza lo sviluppo del Mezzogiorno. E questa convinzione diffusa era fortemente alimentata da singole personalità e gruppi economici e sociali non solo meridionali ma anche del Centro Nord.

Questa idea, che veniva definita da tutti “questione meridionale” e che in alcun momento della sua lunga vicenda storica aveva mai sviluppato tensioni o conflitti di tipo separatistico, a partire dagli anni Ottanta incominciò a scricchiolare. I motivi vanno individuati nei fallimenti sia delle politiche nazionali per il Sud, attuate tra gli anni Sessanta e Ottanta, sia delle politiche alternative alla Cassa del Mezzogiorno alimentate anche dai primi interventi programmatici di Coesione messi a punto dall’allora Comunità europea.

L’iniziativa politico-culturale della Lega volta a sostituire la “questione meridionale” con la “questione settentrionale” ha avuto soprattutto la funzione di creare un sentimento di massa, mostrandosi tutt’altro che inventata a tavolino. Si è trattato di mettere in essere un diffuso sentimento di ostilità verso tutto ciò che vuol “entrare” nel Nord dall’esterno, creando lo spazio di una secessione di fatto nei sentimenti e nelle relazioni umane.

Come ha scritto diversi anni fa il filosofo Biagio de Giovanni (“A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?”, Marsilio, 2009) , la Lega si è collocata dal punto di vista della realtà delle cose, si è fatta tutt’uno con questa, dando coscienza unitaria a forze disperse e malcontente, d’improvviso riflesse e rappresentate in quel grido di protesta, in quella sollevazione primitiva che segnò la grande discontinuità (dopo quella di Tangentopoli che aveva intaccato solo la forma politica) con la sostanza storica delle analisi fondamentali della Prima repubblica.

Su questa base, il Carroccio di Umberto Bossi raggiunse il suo massimo risultato nel 1996, quando ottenne il 10% dei voti nelle elezioni politiche. Dopo quella impennata, sembrò ad un certo punto che il fenomeno leghista si indebolisse. L’idea di secessione venne, infatti, accantonata e subentrò un atteggiamento più moderato e dialogante. La Lega assunse i caratteri di un movimento capace di coprire spazi lasciati vuoti da rappresentanze politiche e sociali in crisi a seguito dell’evaporarsi delle grandi narrazioni ideologiche del Novecento.

La Lega riprese ad avanzare sia pure in modo altalenante, “civilizzando” quanto era necessario “civilizzare” al proprio interno, per non far diventare marginale  il suo discorso. Innestò la sua iniziativa nei comuni del Lombardo-Veneto, penetrando nei confini corazzati dell’Emilia rossa e immettendo nella politica italiana una traccia indelebile che intaccava un nodo dolente della storia della Repubblica. Infatti, il dualismo italiano, che aveva attraversato diverse fasi anche cariche di speranza, si confermava ancora drammaticamente come nodo irrisolto.

La Lega di Bossi ebbe come alleato organico Forza Italia di Silvio Berlusconi che si era collocata nel vuoto politico creato da Mani pulite e raccoglieva quell’elettorato moderato rimasto privo di rappresentanza. Con Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, nel frattempo pienamente legittimata nel sistema politico, Forza Italia e Lega, alla fine di un lungo percorso di progressivo avvicinamento, governarono insieme. E il cuore di quell’alleanza fu l’attacco alla “questione meridionale”. Attacco riuscito in pieno e che gli eredi del meridionalismo non seppero contenere e rovesciare.

 

I tentativi falliti di rilancio del meridionalismo

Il pensiero meridionalista infatti era fermo, consapevole della caduta di vecchie categorie di comprensione e abbastanza sulla difensiva per costruirne altre. Si erano fatti esperimenti importanti d’innovazione fra loro diverse, dalla rivista “Meridiana” diretta inizialmente da Piero Bevilacqua e Carmine Donzelli  al “pensiero meridiano” di Franco Cassano. Ma siffatti tentativi si erano rivelati incapaci di produrre cultura politica. E anche la cosiddetta rivoluzione dei sindaci, che aveva avuto come epicentro la Napoli di Antonio Bassolino (ma anche la Catania di Enzo Bianco e la Palermo di Leoluca Orlando)  ed era stata ideata per fronteggiare la sfida leghista sul terreno suo proprio – quello del federalismo – era stato un fallimento. Un fallimento storico delle classi dirigenti meridionali che veniva da stagioni lontane, da insufficienze radicate nel tessuto di quella società, da trasformazioni profonde di contesto. Un fallimento storico di un intero sistema politico che era collassato a incominciare dal partito meridionale per eccellenza, la Dc. Ma quella dei sindaci era stata l’ultima esperienza che avrebbe potuto rovesciare la marginalizzazione del pensiero critico di un incancrenito dualismo, qualora si fossero utilizzati in modo intelligente i giganteschi flussi finanziari europei. Eppure, quella vicenda non solo non l’aveva rovesciata, anzi ne aveva confermata la tendenza.

Sicché la “questione settentrionale” si mangiò l’altra, quella meridionale. Insorta oggettivamente su mutamenti profondi dello scenario nazionale e mondiale, sulla crisi degli Stati nazionali, sull’internazionalizzazione dell’economia, sull’irrompere del Nord-Est come nuova chiave di lettura del sistema produttivo italiano, la “questione settentrionale” diventò egemonica perché legittimata dal fallimento di un vecchio sistema politico che non aveva saputo reinventare in termini nuovi la “questione meridionale”.

 

Il voto operaio alla Lega

E così, alle elezioni del 2008, ci fu l’amara sorpresa di vedere una parte cospicua del voto operaio spostarsi verso la Lega. Quando la rottura di un sistema egemonico, sorretto da una visione della storia nazionale, si traduce in sensibilità critica di massa, allora scatta uno spostamento nell’opinione generale e una nuova visione della storia nazionale diventa sensibilità comune. Se un operaio del Nord può votare la Cgil, la Cisl e la Uil e, nello stesso tempo, la Lega, vuol dire che qualcosa si è spezzato nelle connessioni e nei gangli che tenevano insieme un sistema. Veniva fuori in modo plateale quello che molti avevano intuito qualche tempo prima: il sindacato era diventato una corporazione tra le corporazioni e tendeva a conservare lo status quo.

Poi ci furono gli scandali di Bossi – la truffa dei rimborsi elettorali, gli investimenti africani in diamanti, le lauree comprate in Albania per Renzo e altri membri della “family” – e il generoso ma vano tentativo del successore, Roberto Maroni, di farli dimenticare. Alle elezioni politiche del 2013 la Lega scese infatti al 4%. E questo dato sta a dimostrare l’esistenza di elementi di dinamismo da non sottovalutare mai: la forte mobilità del voto in Italia e la reversibilità – anche repentina – dei processi politici che si producono nel Paese.

 

L’avanzata elettorale della Lega di Salvini

Con Matteo Salvini c’è stata la rimonta fino a conseguire il 18% dei voti nell’ultima tornata elettorale. Il nuovo leader leghista ha stravolto l’ideologia padana, rinnegando tante cose sostenute in passato (a partire dai “napoletani colerosi e terremotati”). Ha trasformato il partito da forza locale a nazionale, affidandosi a uomini selezionati mediante l’applicazione di tre rigide regole: godere di uno spiccato “carisma” clientelare, possedere uno spirito politico camaleontico, essere il referente di un blocco elettorale tramandato di padre in figlio (tipico delle cosche criminali), a prescindere dalla sigla del partito.

In tal modo si è potuto garantire una quota consistente di voti anche al Sud. Salvini ha preso quasi il 15% in Abruzzo, il 10% in Molise e Sardegna, il 6% in Puglia e Basilicata, il 5% in Campania, Calabria e Sicilia. Per capire la portata del cambiamento è sufficiente ricordare che in nessuna di queste regioni cinque anni fa la Lega aveva superato l’1%.

 

Le alleanze internazionali

Sul piano internazionale, la Lega di Salvini ha cavalcato l’onda anti-europeista che sta scuotendo le fondamenta dell’UE, collegandosi a Marine Le Pen e a Victor Orban. Ha cominciato a strizzare l’occhio alla Russia di Vladimir Putin, pur dichiarando di non voler scalfire l’alleanza storica dell’Italia con gli Stati Uniti.

Nel libro “Da Pontida a Mosca. Gli accordi tra Putin e la Lega Nord”, scritto da Fabio Sapettini e Andrea Tabacchini ed edito da Samovar (2017), è riportato integralmente l’”Accordo sulla cooperazione e collaborazione tra il partito politico nazionale russo RUSSIA UNITA e il partito politico Lega Nord”. In base a tale “Accordo”, le due forze politiche sono impegnate a consultarsi e scambiarsi “informazioni su temi di attualità della situazione nella Federazione Russa e nella Repubblica Italiana, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco”. Inoltre, Russia Unita e Lega Nord si sono accordate a “promuovere la cooperazione nei settori dell’economia, del commercio e degli investimenti tra i due Paesi”.

 

I rapporti con la piccola e media impresa del Nord

Come ha rilevato Dario Di Vico sul “Corriere della sera” (28 marzo 2018), Salvini al Nord non ha rastrellato voti solo tra coloro che si considerano i perdenti della globalizzazione — la versione padana dei forgotten men — ma anche tra i vincenti dell’apertura dei mercati: le imprese che, nel nuovo triangolo della ripresa 2018 tra Varese, Bologna e Treviso, hanno cambiato struttura e mentalità rispetto al periodo pre-crisi e sono diventate più stabili e longeve internazionalizzandosi e mettendosi così al sicuro dal dipendere esclusivamente dal mercato interno.

Votando Lega questo mondo ha voluto esprimere due esigenze che non sono alternative ma complementari: da una parte, aprire i mercati con idonee ed efficaci istituzioni e regole sovranazionali, e, dall’altra, salvaguardare e riorganizzare la sovranità nazionale per esaltare le peculiarità territoriali dei nostri distretti, assumendo la fisionomia di aziende glocali.

 

La politica anti-immigrati come tratto identitario

Come si può vedere, Salvini ha stravolto il Carroccio dall’interno, rimanendo tuttavia fedele a un solo principio bossiano: la politica anti-immigrati, ancora oggi caposaldo dell’ideologia leghista. A Macerata, dove il 10 febbraio 2018 è stata organizzata una manifestazione antifascista in seguito all’attentato fatto da Luca Traini, che il 3 febbraio aveva sparato dalla sua auto a diverse persone africane, la coalizione di centrodestra ha preso nelle ultime elezioni politiche più voti (37,9%). E all’interno di essa, la Lega ha distaccato Forza Italia con più di undici punti, risultando il partito più votato (oltre il 21%). Un successo ancor più significativo dopo che i sondaggi l’avevano piazzata allo zero virgola.

Salvini fomenta la percezione di una esagerata “emergenza immigrazione” e riscuote un alto consenso intorno alla promessa del pugno di ferro nei confronti dei profughi al fine di rispedirli nei loro Paesi d’origine. Agisce utilizzando il linguaggio e l’immaginario collettivo  tipici del razzismo, così come si è venuto delineando in Italia nel lungo periodo. L’argomento principale del  concetto di razzismo nel nostro Paese non è l’evoluzionismo biologico al fine di tornare mitologicamente al passato primigenio, come è apparso evidente nel Terzo Reich, ma una sorta di evoluzionismo “comunitario” che fa riferimento alla costruzione dell’italianità.  Il razzismo oggi si configura da noi come identitarismo in un mondo globalizzato percepito come minaccia. E la Lega si è fatta interprete di tutto quello che in questi ultimi decenni si riconduce alla parole d’ordine “prima gli italiani”, di cui la politica anti immigrati è solo un tassello, anche se è quello più significativo.

 

L’antieuropeismo a dimensione nazionale  

Alle elezioni del 4 marzo, Salvini non ha avuto più bisogno di mostrare il volto arcigno dell’anti Sud perché del Sud la Lega e i suoi alleati avevano già fatto il loro pasto prelibato quando erano riusciti a sostituire la visione della storia nazionale che veniva dalla tradizione meridionalista con un’altra visione dell’Italia, imperniata sulla “questione settentrionale”. E con tale nuova visione le forze alleate nel centrodestra hanno potuto completare la grande operazione politica avviata da Bossi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Il messaggio che soprattutto Salvini ha indirizzato ai settentrionali si è fondato non solo sulla paura della globalizzazione e dei flussi migratori, ma anche sul mostrare la capacità della nuova Lega di estendere il credo antieuropeista a tutto il territorio nazionale. Un credo piantato sul grumo assistenzialistico formatosi sulle ceneri della Casmez che alimenta rigurgiti autarchici, nostalgie passatiste, regressioni protezionistiche, etnolocalismi chiusi, reinvenzioni rozze di miti arcaici che si ritenevano sepolti.

Naturalmente, tale esito è stato conseguito utilizzando a piene mani un intero sistema mediatico. Il quale si è reso disponibile a sostenere tale operazione per mantenere invariate le tirature dei giornali e accrescere l’audience dei programmi televisivi. A tale capacità si è aggiunta, negli ultimi tempi, l’attitudine a padroneggiare la profilazione digitale, promuovendo la costituzione di una molteplicità di comunità di utenti dei social. Migliaia di persone assimilano e diffondono, mediante le modalità della propaganda virale già sperimentata dalla Casaleggio Associati per il M5S, quel linguaggio e quell’immaginario collettivo di tipo razzista attivati da Salvini.

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