LibertàEguale

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di Elisabetta Corasaniti

 

I commentatori, generalmente, tendono ad interpretare l’ascesa del “populismo” (e l’infelice condizione della vita pubblica nostrana) principalmente alla luce della crisi finanziaria. Eppure, se l’economia è tornata a crescere e il peggio sembra passato, perchè i cosiddetti ” partiti del vaffa ” continuano a raccogliere consensi? Perché nessuno riesce a correggere o a contenere questa corrente di ‘’antipolitica’’?
Giovanni Orsina, nel suo ultimo libro “Democrazia del narcisismo”, cerca queste origini nella democrazia stessa, elaborando un’interessante tesi per cui il cuore del problema non va ricondotto a congiunture storiche ma al fondamento della nostra forma di stato.

 

L’insostenibile promessa dell’eguaglianza

La crisi della democrazia italiana sembra caratterizzarsi per uno scontro che si colloca, con le sue specificità, nella più generale crisi della democrazia liberale del mondo occidentale. In particolare, secondo Orsina, la crisi democratica va collocata nelle degenerazioni che lo spirito democratico in qualche modo presuppone.

Al richiamo del dilemma di Böckenforde per cui «Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire», appare evidente come la democrazia non può (purtroppo) riuscire a soddisfare fino in fondo l’implicita (o anche esplicita) promessa di felicità e benessere per tutti.

Già Alexis de Tocqueville, nella sua ‘’Democracy in America’’, seppe individuare con acribia le caratteristiche contraddittorie non solo della politica, ma anche della società e dell’uomo democratico. Tocqueville, dopo aver definito la democrazia una situazione irreversibile, rileva con straordinaria lucidità ( e preveggenza) le opportunità ma anche i rischi e i pericoli. Gli aspetti negativi sono insiti nella degenerazione che segue la ricerca dell’eguaglianza politica: «il desiderio di uguaglianza diventa sempre più insaziabile, a mano a mano che l’uguaglianza si fa più grande»

Il pericolo, infatti, per dirla con Orsina, è che si manifesti una massa di individui omogenei e uniformi, autocentrati e incapaci di differenziarsi. In questo modo, ogni tipo di autorità viene rigettata, vissuta come ingiusta e traditrice dell’ideale democratico.

A metà degli anni sessanta è andata sempre più emergendo, la pretesa che la promessa democratica fosse realizzata nell’immediato, tutta e subito.
Il movimento del ’68 tanto ben noto quanto complesso e controverso, è oggetto (ancora) di una enorme quantità di interpretazioni estremamente contrastanti e divergenti.
Sicuramente, nonostante la correttezza di molte delle istanze allora poste, il movimento è stato radicalmente incapace di porsi all’altezza dei problemi che esso stesso sollevava. L’errore d’origine fu la scissione tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, tra risultati e meriti, e il predominio assoluto dei desideri su ogni altra considerazione.

E’ accaduto, insomma ,che un’azione sociale esercitata per liberare l’individuo, ha finito per esaltare la sua atomistica individualità, trasformandolo in un’entità anonima e passiva.
Le élite politiche occidentali si sarebbero quindi indebolite nei decenni successivi proprio nel tentativo di soddisfare, o di arginare, il rilancio della promessa di assoluta emancipazione individuale: “negli anni settanta governi di sinistra tendono a soddisfare la richiesta di emancipazione individuale ampliando in misura considerevole il campo dei diritti; negli anni ottanta governi di destra sia assecondano sia arginano quella richiesta facendo forza sul mercato”.

La politica, senza cedere alla pressione individualistica, avrebbe dovuto iniziare a frenare le sue promesse. Ma non poteva (o non voleva). Il rischio era troppo alto. Fece dunque in modo che i cittadini si scontrassero con altri muri, magari tecnici e non politici: le istituzioni internazionali, la banca centrale, il mercato, l’euro. Invero, se la democrazia promette a ognuno la massima autonomia, Perderà non solo la sua autorità, ma soprattutto, la sua autorevolezza.

Ma, allora, come si può promettere quel che non si può mantenere senza pagarne alla lunga il prezzo? Non si può.

 

 

Il populista non è altro che un narcisista

I cittadini si scagliano contro quelli che a loro avviso dovrebbero proteggerli, e non lo fanno. E l’Inizio della fase storica nella quale viviamo, con i suoi stili comunicativi, le sue retoriche.
I Populisti infatti, con sempre maggior consenso elettorale, scagliano rabbia e risentimento contro l’élite, che si confonde nell’immaginario collettivo nell’establishment: un soggetto unico, ingeneroso ed escludente.

Il populista non è altro che un narcisista. La specificità di questa figura, nota ancora Orsina, «consiste nel fatto che la sua ossessione di sé è fondata su una distorsione cognitiva: l’incapacità di percepire la propria persona e la realtà come due entità separate e autonome l’una dall’altra – di distinguere il dentro dal fuori, l’oggettivo dal soggettivo». Il narcisista è autoreferenziale: è il tuttologo che può pronunziarsi su tutto e trova conforto in comunità chiuse che si contrappongono ad altre comunità.

Il narcisista rifiuta la scienza e la razionalità obiettiva: confonde la democratizzazione politica con la democratizzazione generica del sapere.
La pretesa cieca dell’uguaglianza, il senso di onnipotenza derivante dalla tecnologia che (solo apparentemente) permettono la disponibilità di ogni tipo di informazione, incentivano l’ossessione presuntiva del suo sapere.

E’ la “democrazia del narcisismo”, carica di gesti clamorosi, dichiarazioni roboanti, polemiche aspre e segnali forti di leader in “ipertrofia dell’io” che di certo, non consentono di governare adeguatamente un grande paese come l’Italia.

Non è un caso, allora, se imperversano teorie complottistiche, ritornano le superstizioni e attecchiscono leggende popolari. Il narcisista preferisce «credere a complicate sciocchezze anziché accettare che la situazione in cui si trova sia incomprensibile». La politica è un twitt o una diretta Facebook. La politica è in streaming, la comunicazione è ideata per eccitare una forza identitaria, in una moltiplicazione di pulsioni istantanee mai lungimiranti.

Sono nemici tutti: l’opinione pubblica non aderente, gli scienziati, gli studiosi e in genere, coloro che non aderiscono a questa religione di democrazia narcisistica fondata sul nulla, ma espressa in un like. Il mito della democrazia diretta ha soppiantato la più prosaica ma reale e sostanziale democrazia rappresentativa e liberale.

La meritocrazia ha ceduto il posto a una sorta di mediocrazia che finisce spesso per convertirsi in un pericoloso conformismo di massa. Il gioco demagogico fa leva sulle preoccupazioni di massa, manifestate in forma di slogan a effetto e individuazione di “nemici”.

I narcisisti sono tanto gli elettori quanto i politici. E in questa perdita di senso della realtà anche i politici sono tutti concentrati solo su sé stessi. Alla ricerca del consenso, la classe politica rincorre emozioni come la rabbia e la frustrazione poiché sono le uniche che tengono assieme identità differenti.

Ognuno vuole decidere su tutto senza mediazioni o intermediari e senza nemmeno averne le competenze specifiche; eppure le alternative proposte sono o assai poco desiderabili o del tutto irrealistiche.

 

 

Senza cadere in facili pregiudizi sulla inopportunità o sulla pericolosità del suffragio universale, è indubbio che la democrazia è attualmente attraversata da tensioni forti. La vita democratica ha bisogno, per funzionare, di limiti certi e di una forte dose di autodisciplina.

 

La libertà individuale non può essere illimitata.

Il funzionamento del sistema democratico si ha solo se i suoi cittadini desiderano, sì, ma solo entro certi limiti. Il presupposto morale è uno solo: tanti diritti quanti doveri. Il tema del governo e, soprattutto, della “cultura di governo”, resta aperto.

Quanto alla catastrofe, forse non c’è bisogno di arrivare al peggio (in fondo siamo già vicini al fondo). La sfida, dunque, è politica, da classi dirigenti responsabili. E non di propaganda.

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