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La democrazia dell’alternanza

Danilo Di Matteo lunedì 13 Giugno 2016
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Di recente Achille Occhetto ha ricordato fra l’altro la delusione, condivisa da molti, per l’esito politico, in Italia, del periodo successivo al 1989. Con la rimozione del fattore K e la modifica in senso maggioritario del sistema elettorale, ci si aspettava che si affermasse una moderna democrazia dell’alternanza fra una sinistra e un’area moderata profondamente rinnovate. Ciò avrebbe dovuto consentire, come diceva l’ultimo segretario del Pci, di muovere le acque stagnanti della politica, metafora di degrado e putrefazione.

Così non è stato. Mutamenti, anche consistenti, sono intervenuti, ma non nella direzione auspicata. Perché? Tanti i fattori che hanno inciso, come di solito accade. Il fatto è che alcuni schemi, come il “ricambio” fra il “Ppe” e il “Pse”, sono troppo astratti o quantomeno, come direbbe Max Weber, sono “idealtipici”. Occorre scorgere e discernere con attenzione le linee di frattura reali, i conflitti del qui e ora, le mille variabili che condizionano gli equilibri politici e sociali nei vari paesi. La storia difficilmente si lascia mettere le brache. E in realtà, se diamo uno sguardo ai diversi contesti nazionali dell’Occidente, la “democrazia dell’alternanza” si è più o meno affermata nel corso del Novecento attraverso una pluralità di percorsi dissimili, tutt’altro che lineari. E oggi essa conosce difficoltà e crisi quasi ovunque, persino nel mondo anglosassone.

Crisi non vuol dire necessariamente fine; corrisponde però a un periodo travagliato, dal quale potrà uscirne persino rafforzata. Fra i motivi di fondo di ciò vi è senz’altro il fatto che, a seguito della nuova, possente ondata della globalizzazione iniziata proprio nel 1989, le istituzioni democratiche nazionali sono state espropriate, per dir così, di importanti decisioni, specie in campo economico e finanziario.

E già Nilde Iotti, più volte ricordata nelle ultime settimane, sottolineava il deficit democratico che caratterizza tante scelte che incidono in profondità sulla vita dei cittadini. Detto altrimenti: i luoghi delle decisioni reali corrispondono sempre meno a quelli della politica e delle istituzioni espressione della sovranità popolare. Ciò finisce poi per rafforzare, quasi paradossalmente, la sensazione diffusa fra non pochi elettori di una distanza forse incolmabile con la sfera politica. Da qui scaturiscono fenomeni diffusi quali la demagogia e i populismi, rendendo ancor più difficile realizzare una sana democrazia dell’alternanza.

Occorrerebbe far leva, dunque, sulla reattività delle democrazie rispetto a processi del genere. Reattività dimostrata ad esempio nel Regno Unito con l’elezione di Sadiq Khan a sindaco di Londra e, anni prima, con l’affermazione di Barack Obama negli Usa. Da un lato la riscoperta dei “municipi”, dall’altro la capacità di promuovere logiche di inclusione e di estensione della democrazia su scala nazionale e continentale. Attenzione, però: a tal fine occorre rivitalizzare i partiti. Ecco perché non sono casuali gli sforzi del premier Matteo Renzi volti a rilanciare in Europa il campo dei democratici e dei socialisti del Pse. Con l’auspicio che maturino nell’Unione europea sentimenti di partecipazione e di condivisione democratica, a dispetto delle difficoltà del momento.

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