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La democrazia in Europa e le riforme necessarie

Giorgio Armillei giovedì 14 Febbraio 2019
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di Giorgio Armillei

 

“My father always said peace was not having to show your passport”

Paul Lendvai

 

“Se ti consideri un cittadino del mondo non sei cittadino di nessun posto”

Theresa May

 

 

Dove siamo

Democrazia, sviluppo, riformismo, Europa sono le parole del titolo del nostro incontro (svoltosi a Roma, il 9 febbraio 2019, ndr).

Sono la trama delle nostre passioni civili. Politica responsabile, crescita economica, eguaglianza delle opportunità, riflessione critica e revisione dello status quo, regole per circoscrivere poteri politici ed economici e garantire così la più ampia misura possibile di libertà delle persone.

Sono parole con le quali ci riferiamo a norme, prassi, routine, cioè a istituzioni. Le istituzioni della società aperta, quelle oggi messe duramente in discussione.

Si tratta di un fatto in parte fisiologico, segno di un tempo di transizione.

Ma è proprio in questo tempo di transizione che occorre mettere alcuni punti fermi.

Le istituzioni della società aperta ruotano attorno a un’idea di identità non ascrittiva, a un sistema di credenze non ideologico. Assistiamo invece in questi anni a una sorta di rivincita del comunitarismo integralista: si appartiene a qualcosa di dato, a un qualche spazio precostituito, si sta dentro un confine, e così via.

Ora, l’identità è un costrutto sociale con il quale ci si colloca nello spazio infinito delle relazioni sociali, con il quale si stabilisce una coerenza di azione e di senso nel tempo, con il quale ci si addestra a scegliere nei momenti determinanti. Ogni sistema sociale ha bisogno di identità, ma l’identità si costruisce socialmente.

Oggi ad essere messa sotto stress è la visione e la realtà dell’identità come processo, come costruzione sociale, riflessiva, seppure naturalmente in un percorso che non può che svolgersi dentro una tradizione e dentro istituzioni.

La società aperta è fatta di istituzioni che incorporano identità aperte: una società deistituzionalizzata non è una società più aperta ma solo una società debole e precaria. Probabilmente anche una società predatoria.

Paolo VI lo scrisse chiaro e tondo, parlando di nazionalismo e di chiusura.

“È normale che nazioni di vecchia cultura siano fiere del patrimonio, che hanno avuto in retaggio dalla loro storia. Ma tali sentimenti legittimi devono essere sublimati dalla carità universale che abbraccia tutti i membri della famiglia umana. Il nazionalismo isola i popoli contro il loro vero bene; e risulterebbe particolarmente dannoso là dove la fragilità delle economie nazionali esige invece la messa in comune degli sforzi, delle conoscenze e dei mezzi finanziari, onde realizzare i programmi di sviluppo e intensificare gli scambi commerciali e culturali.” (Popolorum Progressio, n. 62)

Venticinque anni dopo, a proposito del successo dell’Unione europea, allora ancora Comunità, sarà Andreatta a usare concetti simili, naturalmente dal suo punto di vista di economista e di attore politico. “Il primo elemento che ha permesso questo successo era di non essere nazionalisti, ma di considerare che la garanzia delle libertà europee stava in una costruzione sovranazionale, in una costruzione che non era perfetta, rispetto al federalismo di matrice laica. […] Il secondo punto importante è però che questi politici avevano assorbito la lezione del liberalismo; l’avevano assorbita sul piano della economia di mercato, l’avevano assorbita sul significato del valore di cittadinanza, sul superamento della etnicità, dei valori tradizionali”. (N. Andreatta, Una organizzazione sovranazionale e tempi certi per i Paesi dell’Est. Per sottrarli al nazionalismo, in AA.VV., L’Europa di Andreatta, Bologna, il Mulino, 2017)

L’epoca della società aperta, proprio in vista della realizzazione di quei programmi di sviluppo fatti di scambi commerciali e culturali, ha messo in discussione due architravi dell’ordine identitario chiuso: il rapporto rigidamente gerarchico tra politica ed economia e, conseguentemente, il futuro dello Stato nazione.

Il modello di maggiore successo di questa messa in discussione è rappresentato dall’Unione Europea, nonostante tutti gli anni di crisi affrontati in questo difficile inizio del terzo millennio. E non casualmente è l’Unione ad essere sotto il tiro incrociato dei difensori dell’identità chiusa.

È su questo punto che la frattura tra vecchia destra e vecchia sinistra del ‘900 arretra nella gerarchia delle fratture alle quali ricondurre la dinamica politica.

Vecchia destra e vecchia sinistra finiscono infatti per essere oggettivamente alleate in questa sfida alla società aperta. La destra porta in dote il suo carico di arroccamento nazionalista, come la Lega, Le Pen, Orban e i populisti polacchi dimostrano ogni giorno. La sinistra la sua quota di comunitarismo integralista. Tanto da giungere a ricostruire proprio su quel comunitarismo una nuova proposta di polarità tra un populismo di destra e un populismo di sinistra: pensiamo al M5, a pezzi del PD, a certa sinistra francese, a Corbyn.

La sinistra – in particolar modo negli Stati Uniti – ha poi anche una seconda responsabilità diversa e complementare alla prima. Al recupero identitario della destra giocato su temi nazionalistici ha aggiunto il recupero identitario delle minoranze. Frantumando le possibilità di comunicazione e trasformando la ricerca di maggiore eguaglianza delle opportunità in una pseudo politica dell’identità.

L’arretramento della frattura destra sinistra nella gerarchia delle fratture non è certo una scoperta recente. Oggi però la sfida è radicalmente nuova. I riformisti hanno una missione che è figlia delle nuove fratture.

Una missione difficile: smontare l’ideologia dell’identità chiusa e allo stesso tempo, in corsa se così si può dire, riformare le istituzioni dell’Unione. Cioè costruire un nuovo spazio per innovare e rischiare e al tempo stesso rafforzare le istituzioni per gestire questo rischio. Senza le quali è difficile immaginare altro dal ripiegamento e dal declino rancoroso. Tenendo fermi due pilastri: l’equilibrio tra politica ed economia e lo “scoronamento” dello Stato.

In un certo senso, gli ordoliberali avevano ragione: l’economia di mercato può costituire un ordine sociale accanto a e non sotto a quello politico. Così come avevano ragione i padri fondatori dell’Unione, tra i quali molti erano espressione del cattolicesimo politico liberale: non la politica degli Stati nazione ma l’integrazione degli interessi economici e culturali farà da driver del futuro pluralistico ordine politico, economico, scientifico e religioso europeo.

L’Unione per via economica non è infatti economicismo ma strategia per arginare e aggirare il sovranismo statale e in un certo senso per salvare gli stati da sé stessi.

È dunque ragionevole e realistico perseguire a livello europeo la via delle riforme per rendere l’Unione capace di rispondere all’interdipendenza economica con l’interdipendenza politica. Ragionevole e realistico muoversi nel sentiero che corre tra gli opposti errori del dominio intergovernativo e del regresso sovranista puro e semplice.

Anche in questo caso non si tratta di una novità. Ma non siamo più al confronto tra euroscettici moderati e europeisti convinti: siamo al conflitto tra nazionalpopulisti e liberali. Questo cambia le cose. Le grandi intuizioni restano valide ma smottano sotto i colpi della nostalgia, del vittimismo, del risentimento, come è accaduto sotto i nostri occhi in Francia negli ultimi mesi. Sotto i colpi della paura “emozione primitiva” tra le emozioni politiche, come la chiama Martha Nussbaum.

La domanda è perciò: come usciamo da quella che appare una trappola?

 

Errori e narrazioni

Troppo facile e scontato sostenere che la battuta d’arresto della società aperta sia da imputare ai suoi errori, alle sue promesse non mantenute o peggio ai suoi limiti strutturali.

Cose del tipo: il mondo non è diventato più democratico dopo le risposte dell’interventismo liberale; il mondo non è diventato più sicuro dopo la risposta militare alla sfida del terrorismo islamico; il mondo non è diventato più ricco per tutti dopo la grande liberalizzazione; non sono per niente convincenti.

C’è qualcosa di più profondo da indagare e con cui fare i conti: la politica dell’identità chiusa non è solo il frutto di fallimenti di policy.

C’è una lunga e remota operazione politica che si è costruita come rifiuto della modernità, usando gli strumenti più avanzati della modernità: Brexit non parte nel 2016, l’idraulico polacco arriva prima, la sfida del terrorismo islamico non comincia dopo l’Iraq, e così via. C’è una vera e propria controffensiva del tradizionalismo conservatore.

Ciò nonostante errori non sono mancati.

Non tanto la fiducia nella globalizzazione, la fiducia che ritrovavamo nei libri scritti prima della crisi del 2007: In difesa della globalizzazione o Perché la globalizzazione funziona.

E neppure la fiducia nella personalizzazione della leadership politica, la democrazia del pubblico: perché quella è nei fatti e nel cambiamento del modo di funzionare del sistema politico.

Il primo errore è stato aver cominciato a dare per scontata la legittimazione e la lealtà nei confronti della società aperta e delle sue istituzioni sovranazionali. Come ha detto il ministro degli esteri tedesco Maas “la mia generazione è cresciuta nel sentimento che tutto fosse scontato: la sicurezza, il benessere. Niente di cui preoccuparsi”.

Il secondo errore è stato l’aver avuto troppa fiducia nelle capacità di autocontrollo e di autocorrezione del sistema economico – i mercati efficienti – anche quando si trattava di difenderlo dalle incursioni della politica. Pensiamo ai difetti di regolazione nel caso della crisi dei subprime e della corsa all’acquisto delle abitazioni negli USA.

In questo caso gli ordoliberali avevano torto: il sistema dei prezzi non sempre funziona a dovere, i mercati non sempre sono efficienti, non sempre bastano le regole per comporre i conflitti distributivi. Questo per altro lo si sa da sempre: le forme di regolazione istituzionale sono state approntate anche nei sistemi più esemplarmente promercato. Ma non sempre funzionano a dovere e comunque vanno sempre sottoposte a ordinaria e straordinaria manutenzione.

Anche se non possiamo prendere per buone le semplificazioni. Ad esempio, non tutto il ceto medio è fatto di forgotten men. Gli insider dei sistemi di welfare non sono nella stessa barca degli outsider del mercato del lavoro. Il sindacalismo più coraggioso ha cominciato a capirlo.

Anche se – come dice Colin Crouch un autore certo non tenero verso le trasformazioni delle democrazie capitalistiche – “gli oppositori della globalizzazione devono esaminare con cura quali altri strumenti, diversi dalla globalizzazione, avrebbero mai potuto permettere ai miliardi di persone che vivono al di fuori delle economie avanzate di emergere dalla povertà” (C.Crouch, Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo, Bari, Laterza, 2019).

Correzione e controllo non significano tuttavia più politica e più Stato.

Anche in questo senso il destino dell’Unione è cruciale: ai fallimenti del mercato non si rimedia con quello Stato che si porta dietro altrettanti fallimenti, lo Stato come anacronismo di cui parlava Luigi Einaudi.

L’esperimento politico istituzionale dell’Unione – come quello dell’Unione americana – sono un esempio di questo tentativo di non fare della politica in forma di Stato il vertice gerarchico regolatorio e redistributivo di sistemi sociali complessi.

Ma di costruire bilanciamenti dentro la politica e tra la politica e le altre sfere sociali.

Una sorta di divisione sociale dei poteri.

Più articolazione dei poteri politici e meno accentramento.

Più diritto e meno politica per regolare il mercato.

Più contrattazione e meno intrusione dei governi per regolare il lavoro.

Più innovazione sociale e meno burocrazia per stendere reti di protezione.

E così via.

 

Di cosa abbiamo bisogno

Abbiamo innanzi tutto bisogno di qualcosa che abbia a che fare con la disseminazione di un altro racconto, di un’altra idea di identità, di un’altra idea di riconoscimento.

La chiusura identitaria non si vince solo con l’efficienza delle politiche.

Non basta scagliare i fatti contro le emozioni primitive, non basta ironizzare sul nazionalismo.

Occorre inserire nelle agende pubbliche delle società europee e delle loro categorie dirigenti (economiche, politiche, culturali, religiose) uno sforzo consistente per rigenerare il senso di un ordinamento politico europeo come ordinamento politico plurale, sovranazionale, garante della libertà e dei diritti, in grado di isolare i rigurgiti di antisemitismo, anticamera di ogni avventura totalitaria.

Una iniezione di legittimazione simbolica. Un rilancio vigoroso e convinto delle ragioni fondative dell’Unione.

“La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. […] L’Europa non potrà farsi un una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto” diceva Schumann il 9 maggio del 1950 nella sua dichiarazione.

La costituzione europea intesa come realtà che nei fatti integra un insieme articolato di poteri politici statali e sovranazionali è essenziale per la garanzia del diritto, della pace e della solidarietà.

Elaborare un’offerta politica che resti sul sentiero di quella dichiarazione significa però gettarsi oggi nello stesso sforzo creativo di settanta anni fa.

Abbandonando la zavorra delle vecchie idee, conservando il carico prezioso delle idee che funzionano e aggiungendone di nuove.

Una zavorra? Continuare a pensare solo dentro il paradigma dello Stato nazione.

Un’idea che funziona? Continuare sulla strada di politiche del lavoro che aumentino le opportunità e non proteggano il posto di lavoro ad ogni costo, rilanciando l’innovazione tecnologica come opportunità e non come minaccia.

Un’idea da aggiungere? Mettere la città al centro delle politiche per la crescita, partendo da un semplice dato di fatto: le città sono lo spazio privilegiato della società aperta ma allo stesso tempo quello più esposto al contagio nazionalpopulista.

Serve poi un diverso ragionare di alleanze.

Si elabora un’offerta politica per vincere, non per rappresentare un’identità minoritaria: ma le alleanze non sono la somma di una specie di “tutto tranne il nazionalpopulismo”.

Il “tutto tranne” non ha funzionato per il centrosinistra contro il centrodestra di Berlusconi, non funziona contro il nazionalpopulismo di questi anni.

Le alleanze vaste e maggioritarie si fanno su una linea chiara e non per somma delle diversità che spesso è solo somma di debolezze. E si fanno quando si saldano coalizioni di interessi diversi e tensioni unificatrici di tipo generazionale.

Senza una politica di riforma delle istituzioni politiche europee non si va lontano.

Tutti lo hanno capito ma pochi riescono a elaborare strategia solide e realistiche.

Occorre un supplemento di legittimazione in entrata per le istituzioni dell’Unione.

Una politica di riforma non si giustifica per l’astratta coerenza dei modelli ma per la capacità di muovere interessi e passioni. Brexit e il fallimento del 4 dicembre 2016 lo dimostrano.

Le alternative le conosciamo, sono quelle sul tavolo nelle prossime elezioni per il PE.

Incamminarsi verso un’Unione più stretta accanto ad un’area di libero scambio più larga.

Continuare a deragliare verso un ulteriore irrigidimento intergovernativo.

Accentuare l’idea di un’Unione fatta di diversi regimi di policy che danno vita a una governance policentrica priva di un’uniforme base territoriale.

Una combinazione della prima e della terza via potrebbe sembrare convincente. Un po’ Meseberg un po’ Aquisgrana. Se riteniamo Aquisgrana, come ritiene ad esempio Cassese, un esempio di bilateralismo eurocompatibile.

Occorre dunque sviluppare in un ordinamento politico composito la dimensione intergovernativa con quella sovranazionale. Tenendo ben presenti le dinamiche virtuose che hanno fatto crescere l’Unione.

E occorre creare una legittimazione democratica più stringente – anche in forma indiretta – del Consiglio europeo che si va strutturando come Presidenza dell’Unione. O pensare a un rafforzamento della indicazione preventiva del candidato presidente della Commissione europea. Anche se la democrazia liberale non è solo legittimazione elettorale ma anche controlli e contrappesi, già largamente attivi nell’ordinamento europeo.

Occorre un supplemento di legittimazione in uscita.

Significa politiche sociali dotate di un grado minimo di unionizzazione, per costruire una terza gamba accanto all’unione monetaria e al mercato unico, a cominciare ad esempio da un assegno europeo contro la disoccupazione. Anche allo scopo di facilitare l’uscita definitiva dal welfare fordista del XX secolo, la cui difesa ostinata è un altro degli inganni del nazionalpopulismo.

Significa fare il contrario di quanto proposto da chi chiede di rinazionalizzare e ristatalizzare le politiche pubbliche. Sulla base del principio per cui solo dentro la coppia stato nazione sarebbe possibile legittimare decisioni dagli effetti redistributivi, diretti o indiretti. Una linea che accomuna nazionalpopulisti, critici da sinistra della globalizzazione da Melenchon e Corbyn fino a Fassina e iperrealisti à la Kissinger.

È il momento della “reinvenzione del liberalismo” diceva The Economist nel 175° anniversario, lo scorso settembre. Per battere il nazionalpopulismo non ci si può limitare a conservare lo status quo: occorrono rottura e innovazione, sgretolamento delle rendite e allargamento delle opportunità.

Ma di nuovo torna il tema delle alleanze. Dove sono gli imprenditori politici? Macron combatte, la CDU resiste, Meseberg sembra già sbiadita dopo il Consiglio europeo di dicembre e nonostante il trattato di Aquisgrana. E gli altri?

L’aggregato liberale e democratico, l’unico votabile nelle elezioni del prossimo maggio, sarà ancora maggioranza nel Parlamento europeo. Ma per fare cosa?

Parliamo della larga parte dei socialisti: i più resistenti come i francesi, che avevano votato contro il CETA, sono non casualmente scomparsi. Della parte più significativa dei popolari, esclusi i seguaci di Orban e di altri partiti inseriti eccedendo nella logica di raccogliere quasi tutto fosse alla destra del centro. Dei liberali rafforzati da Macron. Di parte dei Verdi, con esclusione delle componenti massimaliste.

Anche se in Italia questo aggregato sarà probabilmente minoritario. Oltre al PD (al netto della parte che subisce il fascino del populismo di sinistra, sperando in un ribaltone a sinistra) e Forza Italia (al netto della parte che subisce il fascino del populismo di destra, sperando in un ribaltone a destra) difficilmente altre liste europeiste supereranno lo sbarramento del 4%.

 

Per concludere, una nota autobiografica collettiva.

Il “Landino” è una piccola espressione di una generazione di “fucini” che ha fatto della riforma del sistema politico il cuore di una lettura della storia del Paese e di una conseguente proposta politica. Le istituzioni non sono forma ma sostanza. Certe istituzioni impediscono certe politiche di riforma. Per questo per fare le seconde occorre cambiare le prime.

Dalle battute d’arresto occorre però apprendere: politics e policy non possono essere separate, in Italia e a maggior ragione oggi in Europa.

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