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La difficile leadership dell’Europa

Giovanni Cominelli martedì 1 Luglio 2025
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di Giovanni Cominelli

 

La Rivista di geopolitica “Le Grand Continent” ha recentemente accusato i leader europei, presenti al summit della Nato all’Aia il 25 giugno scorso, di essersi comportati come “invertebrati”, che hanno vergognosamente strisciato al cospetto di Trump.
Non si vuole qui prendere le loro difese. Nessuno li ha delegati a strisciare di fronte a nessuno e a mostrare così clamorosamente la debolezza delle democrazie europee di fronte ad un personaggio che esibisce la Forza quale regolatrice delle relazioni internazionali.
Tuttavia, “gli invertebrati” rappresentano più o meno fedelmente la composizione zoologica delle società e delle democrazie che li hanno eletti. Ed è questo il problema dell’Europa oggi: la qualità reale dei suoi elettori.

Le tre ragioni della stanchezza democratica

Occorre prendere atto che i meccanismi delle democrazie liberali sono perfettamente oliati: i cittadini-elettori votano, i partiti prendono ciascuno una quota di consenso e di eletti, i poteri si controbilanciano, le libertà e l’Habeas corpus sono garantiti.
Allora perché, di fronte allo snodarsi traumatico della Storia, le nostre democrazie sono e appaiono così stanche e così riluttanti ad assumersi responsabilità rispetto alla struttura e al futuro del mondo?
Sono stanche, perché le società civili europee sono costituite da individui “stanchi”. Le ragioni convergenti sono di tre tipi.

La prima: perfino il voto sta perdendo appeal

La prima: non sempre i meccanismi istituzionali rappresentativi e decisionali favoriscono l’assunzione di responsabilità da parte del cittadino volenteroso. Nel caso dell’Italia, per esempio, persino quella forma minima di partecipazione al destino comune che è l’andare a votare sta perdendo appeal.
Il votante sceglie il partito, ma il partito ha già scelto il rappresentante per lui. Il voto non conta pressoché nulla, così che la partecipazione alle elezioni è in caduta libera da alcuni anni.
Da partecipe il cittadino-elettore è diventato un indifferente. Anche perché la politica nazionale sembra aver perso importanza. I venerabili Stati nazionali europei, finora usbergo delle democrazie, sono diventati le piccole pedine del gioco di pochissimi Stati-impero e dei poteri economici e finanziari globali loro collegati.

La seconda ragione: terremoti nell’assetto mondiale

La seconda ragione è che il meraviglioso mondo di Alice europeo è stato messo a soqquadro da terremoti, che hanno aperto nuove faglie. Detto in parole semplici, è tornata la guerra ai confini dell’Europa, a seguito dello sconvolgimento dell’assetto mondiale che era stato delineato da Teheran nel 1943 a Yalta nel 1945.
Inutile descriverlo qui per l’ennesima volta. Secondo lo storico militare Antony Beevor, “La Seconda guerra mondiale è stata con le sue ramificazioni globali la più grande catastrofe causata dall’uomo nella storia”.
Quella combattuta qui in Europa è stata un condensato unico di violenza, barbarie, disumanità, ferocia animale, che ha lasciato tracce profonde, trasmesse di generazione in generazione, nel profondo degli individui.
Se alla vigilia della Prima Guerra mondiale e persino della Seconda le folle si adunavano in piazza per osannare i pifferai di Hamelin che le avrebbero guidate nell’abisso, oggi non c’è una piazza europea in cui non si manifesti per la pace.
Questo pacifismo universale europeo proietta il sogno di un mondo senza violenza, senza guerre, senza prepotenze e volontà di sottomissione su scala mondiale. Siamo stati abituati alla “pace gratis”.
Non si vede o si finge di non vedere lo scontro tra le potenze, tra i popoli, tra le etnie e tra i leader globali spinti dal motore barbaro della Forza. Gli effetti di tali eventi sui singoli oscillano tra la cecità selettiva e la sensazione di impotenza. E’ un mondo del tutto nuovo, “un’aiuola feroce” dalla quale stare alla larga. Non è meglio “cultiver son jardin”, come suggeriva Voltaire?

La terza ragione: l’eclissi dell’educazione

La democrazia è un sistema politico esigente, perché per rimanere vivo ha bisogno della partecipazione attiva quotidiana di chi lo abita. Ciò che Ernest Renan diceva dell’esistenza della “nazione”, si attaglia perfettamente alla “democrazia”: è il risultato di “un plebiscito quotidiano”.
Le dittature, al contrario, hanno una necessità opposta: che le persone non pretendano di ficcare il naso nei loro affari. La democrazia contemporanea è diventata assai più complessa della vecchia democrazia liberale, esige da ciascuno abilità crescenti, che si generano attraverso l’educazione.
Non solo la cosiddetta “educazione alla cittadinanza”, ma la formazione dell’uomo, dei suoi saperi, del suo carattere. Sta principalmente nell’eclissi dell’educazione integrale la ragione della stanchezza e della fragilità delle democrazie.
Basta dare uno sguardo alla condizione degli istituti che dovrebbero fornire il mix di saperi, competenze, carattere per rendersi conto della gravità della situazione. Se lo Stato politico e amministrativo non può avere compiti educativi, la società civile, che è costituita dalle singole persone, dalle famiglie, dalla rete delle relazioni, dalla scuola e dall’Università, ha naturalmente compiti educativi.
La società è educante, perché l’educazione è la condizione della lunga durata delle società. Se viene meno, esse si estinguono, per eutanasia. La crisi educativa della Famiglia, della Scuola e dell’Università rappresenta la minaccia più seria per la tenuta della nostra società democratica sia in quanto società sia in quanto democratica. La recessione democratica è effetto di auto-erosione.

Se il futuro è sottomissione ai “poteri forti”

Ora, la politica sembra non allarmarsi: l’educazione non sta al primo punto dell’agenda pubblica. Sta troppo altro.
Se i ragazzi e i giovani sono ignoranti del mondo, se diventano perciò straordinariamente manipolabili, se sono incapaci di relazionarsi con gli altri, se fuggono di fronte al profilarsi di un problema o di un evento nuovo, ciò significa solo che le nostre società non hanno futuro, se non, forse, di sottomissione a poteri che oggi le piazze denunciano retoricamente come “forti”.
Non è necessario attendere l’avvento dell’A. I per intravedere un tale scenario, sta già apparendo.

 

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