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La nuova frontiera del riformismo. Il cambiamento in Italia e in Europa

Vittorio Ferla giovedì 30 Novembre 2017
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di Vittorio Ferla

 

Ferla

 

Libertà Eguale compie 18 anni (è nata il 29 novembre 1999). Proprio nell’anno in cui il Partito Democratico festeggia il suo decennale. Diventare maggiorenni rappresenta un’occasione per guardare avanti, entrando nell’età adulta del riformismo italiano. A questo transito decisivo è dedicata l’Assemblea annuale di Orvieto che si svolgerà il 2 e 3 dicembre con il titolo Italia ed Europa nella globalizzazione. I riformisti per una nuova sovranità (emblematica la concomitanza con l’assemblea di Mdp, la lista della sinistra ‘antirenziana’). Proviamo a inquadrare il senso del confronto tematico che si svolgerà a Orvieto.

 

1

Ci sono due passaggi storici a partire dai quali deve ripartire ogni riflessione attuale sul futuro del riformismo liberale e democratico.

 

1.1

Le conseguenze della globalizzazione

Il primo passaggio riguarda le conseguenze della globalizzazione. Da tempo, infatti, è in atto uno sconvolgimento degli assetti economici, sociali e culturali a livello globale. La rivoluzione tecnologica, in particolare, ha creato le condizioni e favorito lo sviluppo dell’effettiva globalizzazione dell’economia. Nel mondo sono migliorate le condizioni di vita di molte popolazioni dei paesi in via di sviluppo. Questa è un’ottima notizia. O, quantomeno, dovrebbe esserlo per quanti si ispirano ai valori progressisti di uguaglianza, giustizia e solidarietà.

Allo stesso tempo, specularmente, nelle democrazie occidentali sono emerse nuove contraddizioni interne: basti pensare all’aumento dei flussi migratori e all’impoverimento di fasce di popolazione tradizionalmente protette. Tutto ciò ha messo la “socialdemocrazia” europea nella incapacità di continuare a svolgere la funzione fondamentale – che aveva ben svolto nei ‘Trenta gloriosi’ del secolo scorso – di garantire una progressiva estensione dei diritti sociali pure nel quadro di una economia di mercato. Anche perché, nel frattempo, si è erosa la capacità di governo della complessità che avevano gli stati nazionali. Questo nuovo scenario oppone nuove sfide a tutta la sinistra europea, non a caso in estrema difficoltà in tutte le competizioni elettorali dei paesi dell’UE, dalla Spagna, alla Francia, alla Germania.

 

1.2

Il fallimento della riforma costituzionale

Il secondo passaggio – tutto interno al nostro paese – riguarda il fallimento del sogno di riforma delle istituzioni coincidente con la sconfitta nel referendum del 4 dicembre 2016. Al di là delle valutazioni, anche perplesse, sul testo, si trattava in ogni caso di uno sforzo finale per favorire la conclusione della transizione italiana verso una democrazia compiuta. Il che significa, tra le altre cose:

  • effettività del diritto di scelta dei cittadini (non soltanto ai fini della rappresentanza degli schieramenti ma anche) ai fini del programma di governo;
  • stabilità dell’esecutivo per la durata della legislatura (fondata su una solida e coerente maggioranza) con conseguente maggiore capacità di attuazione del programma presentato agli elettori;
  • alternanza di governi nel corso delle successive legislature per garantire il necessario ricambio delle classi dirigenti e la normale successione di una democrazia moderna;
  • semplificazione delle istituzioni e delle dinamiche parlamentari al fine di garantire una maggiore tempestività delle decisioni in una società sempre più rapida e complessa.

Tutto ciò non è stato per motivi diversi che sono già stati ampiamente approfonditi. Al di là degli errori compiuti e dei significati sottesi al voto, resta il “pasticciaccio brutto” del ritorno alla palude proporzionale nella quale prevalgono le coalizioni improbabili tra forze politiche incoerenti e i poteri di veto dei soggetti politici minoritari. Una palude proporzionale di tipo nuovo, però, perché aggravato dalla estrema frammentazione del sistema dei partiti (che la Prima Repubblica non aveva conosciuto) e dal tripolarismo di fatto dovuto all’affermazione di una forza populista che assorbe il malcontento di destra e di sinistra.

Questo scenario solleva diversi interrogativi cruciali per il riformismo liberale e socialista e per il Partito Democratico. Proviamo ad affrontarne alcuni.

 

2

La prima domanda è: esiste uno spazio per una sinistra di ispirazione liberale? Che potrebbe anche essere riformulata (retroattivamente) così: quale ispirazione possiamo ritrovare alle radici del progetto del partito democratico?

 

2.1

L’unificazione di culture politiche diverse

Già l’Ulivo era nato anni fa con l’ambizione – fra le altre – di unire persone e gruppi provenienti da storie culturali e politiche diverse. In particolare: la sinistra storica, di origine marxista, con la sua classe dirigente post comunista; la sinistra cristiana, di origine cattolico-democratica e cristiano-sociale, con la sua classe dirigente postdemocristiana; la sinistra laico-liberale di origine repubblicana; la sinistra ambientalista proveniente dalla galassia delle associazioni ambientaliste e delle formazioni verdi. Questo percorso di unificazione si è realizzato dieci anni fa nel Partito Democratico. Come si è ripetuto mille volte, il Pd nasce anche per lenire e archiviare le anacronistiche divisioni ideologiche del Novecento. Non v’è dubbio che le due subculture politiche più rilevanti di questa storia – quelle che maggiormente hanno segnato la storia, prima dell’Ulivo e poi del Partito Democratico – siano quella postcomunista e quella cattolico-democratica. Il Partito democratico avrebbe dovuto valorizzare il pluralismo culturale al suo interno e riconoscere la pluralità degli interessi e delle organizzazioni che rappresentano questo pluralismo culturale.

Ma qui si torna al tema originario. In che cosa si invera questa unificazione di culture? Quale doveva essere e quale è stata la sintesi finale? Per molto tempo la soluzione è stata la giustapposizione dei due filoni principali della politica italiana (che però, ricordiamolo, sono stati anche i responsabili dell’enorme debito pubblico accumulato dal paese negli ultimi venti anni della Prima Repubblica prima della crisi di Tangentopoli). Basti pensare, per esempio, al tempo necessario per far accettare alla componente cattolica l’adesione al Partito socialista europeo: non a caso, l’operazione è riuscita soltanto di recente a un segretario proveniente dal mondo cattolico come Matteo Renzi. Bisogna riconoscere che, nel tempo, la fusione tra le diverse storie e identità si è sostanzialmente compiuta, almeno a livello di biografie personali. Le componenti interne del Pd – così come il gruppo dei fuoriusciti nel Mdp – sono variamente miscelate tra postcomunisti e postdemocristiani. Oggi, per fortuna, non si pone più il problema del pluralismo delle culture.

 

2.2

La tortuosa via del pragmatismo liberale

Ma la questione – oggi più di ieri – è un’altra: quale cultura scaturisce dall’unificazione? Di quale sostanza (culturale) sono fatti i sogni dei democratici italiani? La verità è che i riformisti più avvertiti sapevano da tempo (basti pensare, per esempio alla mozione Morando in occasione del Congresso dei DS del 2001) che l’unica via possibile per l’affermazione di un partito progressista e democratico moderno era quella del pragmatismo liberale, addirittura nella sua versione anglosassone.

Ciò significava, in primo luogo, mettere al centro la responsabilità dell’individuo e la libertà della persona per uno sviluppo economico e sociale ispirato all’eguaglianza dei diritti e delle opportunità.

In secondo luogo, significava modernizzare le istituzioni italiane, oltre le logiche consociative, nella direzione di una democrazia dell’alternanza in cui governi di legislatura realizzano la piattaforma di politiche pubbliche votata dai cittadini.

La relazione di Orvieto 2006 di Salvatore Vassallo o il discorso del Lingotto di Valter Veltroni di Torino 2007 – tanto per fare qualche esempio documentale – andavano in questa direzione.

La realtà storica, ovviamente, è stata molto più complicata. Certamente non soltanto per responsabilità della carenza di cultura liberale del Partito democratico, ma di tutto il sistema dei partiti italiano. Le due principali culture presenti nel Pd, in modi diversi, hanno cercato di resistere al cambiamento. In alcuni casi, con una esplicita negazione di quella impostazione. In altri casi, con uno strisciante e silenzioso conservatorismo di fatto, declinato sia sul versante socioeconomico che su quello istituzionale. Ha resistito il tradizionale mix culturale fatto di assistenzialismo statalistico, tassazione depressiva, spesa pubblica incontrollata, pervasività delle partecipate pubbliche a livello locale, sindacalismo regressivo. Ha resistito la cultura proporzionalistica e consociativa che è stata la specialità culturale di comunisti e democristiani nell’Italia repubblicana del dopoguerra. Elementi uniti dal collante di un certo moralismo paternalistico e giudiziario.

 

3

Con le primarie del 2012 succede però un fatto politico nuovo. Sulla scena politica irrompe la figura del giovane sindaco di Firenze con il suo esplosivo mix di contenuti innovativi e spavalderia personale.

 

3.1

Il conflitto permanente tra la vecchia sinistra e il riformismo

Per valutare la profondità delle differenze in campo – scegliendo di andare al di là delle biografie personali e dei tic antropologici – ancora oggi è molto utile confrontare i programmi concorrenti: Italia Bene Comune di Pierluigi Bersani (ancorato alla logica coalizionale del Patto di Vasto con Vendola e Di Pietro) e i 10 punti di Adesso! di Matteo Renzi (espressione genuina e liberal della nuova vocazione maggioritaria del Partito Democratico).

La Carta d’Intenti Italia Bene comune, costruita come una piattaforma statica, di impronta socialdemocratica tradizionale, era scritta per rassicurare il cerchio stretto degli elettori già decisi e definiva vagamente il perimetro dei valori comuni, piuttosto che indicare le misure precise per realizzarli. In questa maniera rendeva impossibile ogni verifica di coerenza e di efficacia e delega ogni intervento concreto al confronto (e al conflitto) tra le forze della futura maggioranza. Un anacronistico richiamo ai beni comuni – baricentro della Carta d’Intenti – intesi come il territorio protetto del pubblico ‘statale’: beni indisponibili alla pura logica del mercato e dei profitti, che devono vivere in un quadro di programmazione, regolazione e controllo sulla qualità delle prestazioni. Una visione stanca, ripetitiva di antichi cliché. Non è un caso che nelle elezioni politiche del 2013, con questo programma superato, la nave del segretario Bersani si incaglia prima di arrivare nel porto sicuro della vittoria.

 

3.2

L’emersione di una chiara piattaforma riformista

Il programma di Renzi, diretto e tagliente come deve essere un programma riformista, faceva proprio un approccio innovativo di impronta liberale e moderna. Qualche esempio? Il programma criticava “il sistema pubblico con il maggior numero di leggi e il minor numero di risultati tra le grandi democrazie occidentali”. Considerava la riforma dello Stato una vera e propria emergenza (spesa pubblica, enti e strutture inutili e costosi, trasparenza e accountability, misure fiscali). Tante le proposte: l’adozione del Freedom of Information Act per garantire la trasparenza totale, l’introduzione della valutazione e del merito nella PA, la semplificazione di leggi e procedure, misure per rendere più efficiente ed efficace la risposta del sistema giudiziario, ecc. Allo stesso tempo, dichiarava che la sussidiarietà sarà il filo conduttore della proposta: “Il modo più semplice per far ripartire l’Italia è investire sugli italiani”. Renzi promuoveva “le mille associazioni e realtà del terzo settore che tengono insieme le nostre comunità e fanno dell’Italia un Paese sul quale vale ancora la pena scommettere”. Molti i suggerimenti per valorizzare il capitale umano e sociale, anche a partire dalla scuola. Contro la classica mitologia dolente della sinistra, l’Italia non è la terra del declino, ma “un Paese stracolmo di capacità e di energie”. L’obiettivo è “mettere in rete le migliaia di idee e di esperienze che fanno dell’Italia un Paese migliore di come ce lo raccontano i media e la politica”. Il welfare non è più una mera “funzione del lavoro” – schiacciato nella vecchia logica dell’assistenza e dei sussidi collegati alla dimensione lavorativa – come viene trattato, in modo un po’ retrò, nel programma bersaniano. Nel programma liberal-sociale di Renzi il welfare, mettendo al centro le persone, diventa il fondamento stesso dello sviluppo. “Un welfare orientato all’obiettivo di consolidare la coesione sociale e contrastare ogni fattore di discriminazione non si limita a fornire ai cittadini in condizioni di rischio assistenza e sussidi economici secondo una logica risarcitoria, ma guarda in maniera dinamica e attiva alla valorizzazione di ogni persona come risorsa per sé e per la comunità, qualsiasi sia la sua condizione: anagrafica, economica, formativa, di salute”. Un moderno welfare di comunità per offrire servizi alle persone, investire sulle capacità e garantire occasioni di libertà e di sviluppo umano. Per non parlare poi delle proposte sul fisco orientate a liberare le imprese da pesi eccessivi e a favorire gli investimenti.

 

3.3

Alcune prime intuizioni

Ci siamo dilungati un po’ su questi punti non per fare archeologia di polverosi programmi politici, ma un esercizio assai concreto per comprendere due cose: in primo luogo, le differenze determinanti che segnano il presente e il futuro della sinistra italiana. Insomma, l’antico schema dell’unità delle sinistre (o dell’Unione postulivista) non soltanto non è possibile, ma non è nemmeno auspicabile: oltre che inconciliabile sul piano programmatico, sarebbe certamente perdente in una prospettiva squisitamente elettoralistica.

In secondo luogo, bisogna sempre ricordare che al primo ‘giro di ruota’ Renzi uscì sconfitto. Il corpo del partito non era ancora pronto. L’affermazione di un programma liberale è dovuta all’umiliazione della non vittoria di Bersani e alla disperata ricerca di un espediente per sciogliere una fase politica ingarbugliata. Quando, alla fine del 2013, Renzi rigioca e questa volta vince la partita del Congresso si determina un nuovo ‘allineamento dei pianeti’ in tre passaggi: piattaforma programmatica (liberale), sistema di regole moderne per la selezione del leader (primarie), leadership forte sul piano delle policies, riconoscibile sullo scenario mediatico e responsabile nel rapporto con gli elettori democratici.

 

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4.

Una straordinaria stagione di riformismo al governo

In carica dalla fine di febbraio 2014, il governo Renzi realizza un articolato piano di riforme che va dal Jobs Act al taglio dell’Ires, dagli 80 euro al processo civile telematico, dalle unioni civili al divorzio breve, dalle norme per la non autosufficienza alla legge sul ‘Dopo di noi’, dalla riforma del Terzo settore e servizio civile, dallo stop delle tasse agricole alla Buona Scuola, e via elencando. Un mix di interventi di impronta liberale e sociale che segna – al di là di ogni valutazione antropologica – una delle stagioni più importanti del riformismo italiano. Una stagione che, certamente, ha conosciuto un tracollo violento con la sconfitta del referendum costituzionale del 4 dicembre. Ma che si è prolungata ben oltre le dimissioni di dicembre 2016 grazie all’azione attuale del governo Gentiloni con un’altra serie di interventi: le misure in tema di mezzogiorno e coesione territoriale, la tutela del risparmio, la concorrenza, la gestione dei flussi migratori, l’istituzione del servizio civile universale, il buono annuale per la frequenza degli asili nido, la ridefinizione dopo 15 anni dei livelli essenziali di assistenza sanitaria, la rottamazione delle cartelle esattoriali.  

Si possono fare – e a ragione – le più diverse e dettagliate critiche sugli errori di Renzi, ma non si può negare in alcun modo il valore storico di questo percorso riformista. C’è da chiedersi piuttosto se – pur nel contesto politico-istituzionale radicalmente mutato a causa della sconfitta referendaria – l’Italia abbia ancora bisogno di proseguire nella realizzazione di quella piattaforma programmatica liberal che parte dal programma del 2012, si invera per una certa parte negli anni di governo e si schianta proprio nell’ultima curva dello slalom riformista. La risposta è certamente positiva. L’esigenza di liberare finalmente le energie del paese, compresse dalla stratificazione di rendite di posizione, burocrazie parassitarie, procedure inutili, ostacoli alla mobilità sociale, amministrazioni inefficienti, e via elencando è ancora attualissima. E le alternative presenti sul campo appaiono del tutto inadeguate: dalla sinistra nostalgica e settaria, al grillismo moralista e populista, alla destra carente di visione.

 

5.

La vocazione maggioritaria

Il Partito democratico nasce con l’ambizione di esprimere una vocazione maggioritaria. Ma è possibile riproporla oggi in un contesto completamente mutato, in cui la transizione italiana ha innestato improvvisamente il freno a mano e il quadro politico si frammenta nella palude del proporzionalismo? E che cosa significa, in concreto, questa formula?

La prima caratteristica – ‘negativa’ – è il rifiuto della vecchia e confusionaria logica ‘unionista’. In questa logica, intanto ci si spartisce i compiti tra un centro e una sinistra (in passato ciò accadeva, per esempio, con la Margherita e i Ds) e poi si crea un fronte il più possibile ampio anche se disomogeneo contro un ‘nemico’. Ovviamente, la vocazione maggioritaria non è sinonimo di autosufficienza né esclude la costruzione di coalizioni con altri partiti di centro-sinistra. Si tratterà, in quel caso, di coalizioni del tutto diverse da quella dell’Unione, perché caratterizzate dalla presenza, al loro interno, di un partito egemone, il cui leader è automaticamente leader dell’intera coalizione; e il cui programma è perfettamente compatibile – anche se non coincidente – col programma della coalizione stessa. È la regola democratica cui si ispirano le coalizioni in tutta Europa. Ferma restando la pari dignità politica di ciascuno dei partiti contraenti l’accordo, sono gli elettori a decidere i rapporti di forza al suo interno.

Le altre caratteristiche – ‘positive’ – sono:

  • la cultura politica dalla quale deriva un profilo ideale e programmatico tale da poter credibilmente aspirare ad interpretare le esigenze e le speranze della maggioranza del popolo e a raccoglierne il consenso;
  • una leadership individuale e collettiva, adeguatamente selezionata e legittimata che si candida alla guida del paese;
  • un soggetto politico che diventa l’asse di riferimento del suo campo sia in modo esclusivo che in una possibile coalizione;
  • un radicamento sociale e territoriale che permetta di interpretare le domande e incarnare il punto di vista di una larga parte della popolazione;
  • una egemonia culturale capace di imporsi nel dibattito pubblico e nell’intelligenza collettiva.

Sarebbe ingeneroso non riconoscere al Partito democratico e alla sua leadership l’impegno dedicato negli anni a questo obiettivo e i passi da gigante compiuti. Un impegno in qualche modo acclarato anche dai numeri in occasione della straordinaria vittoria alle Europee del 2014 con il 40 per cento dei voti.

Ovviamente, si poteva – e si dovrà – fare molto di più. Il metodo delle primarie non è stato sfruttato in tutte le sue potenzialità: non è diventato lo strumento per ripensare una nuova organizzazione del partito con il coinvolgimento e la manutenzione ordinaria degli elettori iscritti nelle liste elettorali dei gazebo. E’ mancato l’investimento sulla formazione permanente dei quadri dirigenti del partito, degli eletti nel territorio e degli incaricati negli enti locali al fine di costruire una cultura comune di chiara impronta liberaldemocratica. Non c’è stato il sufficiente impegno nel dedicare occasioni di ascolto alle comunità locali e alle organizzazioni di cittadini.

 

6

Il populismo delle classi dirigenti

Bisogna allo stesso tempo riconoscere che il Pd ha dovuto misurarsi con un contesto radicalmente ostile, anche nei settori e nei protagonisti meno sospettabili. Il successo (unito al caratteraccio) dell’ex premier ha scatenato reazioni violente nella sinistra tradizionale del partito, che ha resuscitato il suo apparato di nostalgie e, soprattutto, è riuscita nell’intento di stressare la comunicazione fino al punto che oggi è più facile ricordare i litigi tra i fuoriusciti e Renzi piuttosto che i risultati del triennio riformista.

Una mano determinante per l’affermazione di questa narrativa, però, è bene sottolinearlo, è stata offerta dalla grande stampa nazionale. I quotidiani della borghesia italiana (uniti ai principali talk show televisivi) hanno lavorato senza sosta alla demolizione del governo Renzi: hanno dato credito alla bufala della tentazione autoritaria del premier, hanno mobilitato i propri lettori contro la riforma della Costituzione attesa da 30 anni, hanno amplificato (e in alcuni casi generato) la demagogia anticasta del M5S diventando in molte occasioni il megafono del populismo grillino. In questa opposizione al premier hanno avuto un ruolo decisivo anche quelle categorie più o meno protette e quei settori forti delle rendite consolidate negli anni che hanno visto nel cambiamento un pericolo per la propria posizione: imprenditori assistiti, pezzi di apparati pubblici, sindacati, docenti della scuola, ceto politico.

Pertanto, se a Renzi possono certamente essere attribuiti errori politici e atti di prepotenza, allo stesso modo si può affermare che buona parte della classe dirigente del paese abbia esercitato un vero e proprio potere di veto nei confronti dell’esperienza politica (maggioritaria) dell’ex Presidente del Consiglio.

E così, alla fine di questo percorso che ha visto la brusca battuta d’arresto del 4 dicembre 2016 e diverse discutibili decisioni della Corte Costituzionale sulla legge elettorale, la politica italiana si ritrova in una situazione davvero ingarbugliata. Un sistema elettorale proporzionale dal quale non potrà emergere un vincitore unico. Una frammentazione del quadro dei partiti tale da impedire la costruzione di un governo di coalizione o di larghe intese. L’eventualità assai probabile del ritorno alle urne come accaduto in Spagna (e come rischia di accadere in Germania). A conferma di un quadro europeo in cui i sistemi proporzionali – con il crollo verticale della forza dei partiti tradizionali e l’incremento dei movimenti populisti – non riescono a garantire il governo del paese.

 

7

Il semipresidenzialismo alla francese e la scommessa di Pascal

Quest’ultimo scenario ci riporta, come nelle penalità del gioco dell’oca, alla casella di partenza: la questione delle riforme istituzionali. In tutti i paesi europei, nonostante i movimenti populisti non siano ancora riusciti a raggiungere la vittoria, il tradizionale sistema dei partiti si sta sfaldando. E i protagonisti principali di questo fenomeno sono proprio i partiti socialisti, quasi ovunque in profonda difficoltà. In questo senso, il Partito democratico rappresenta un progetto di eccellenza (sia per la sua piattaforma politica che per la sua collocazione sistemica): nato forse in ritardo rispetto alle necessità del nostro paese, ma capace di anticipare il tracollo del socialismo europeo. Non è un caso che Emmanuel Macron, candidandosi all’Eliseo, si sia ispirato in qualche modo a Renzi e al PD quando ha scelto di smarcarsi dalla tradizione socialista francese e di costruire un programma di modernizzazione europeista.

In tutta Europa, solo la Francia può contare su un governo legittimato e stabile. In pratica, il sistema semipresidenziale francese garantisce al paese governabilità e continuità anche in una situazione di estrema frammentazione delle forze politiche. I sistemi proporzionali e parlamentari non hanno la stessa capacità: lo dimostra anche un sistema robusto come quello tedesco nel quale, oltre la boa della grande coalizione, non c’è più nulla e rischia di aprirsi il baratro del ritorno alle urne o dell’immobilismo.

Il sistema semipresidenziale francese, inoltre, dimostra plasticamente che al rafforzamento dei processi decisionali non consegue affatto la mortificazione della rappresentanza e della partecipazione. Chi vota un partito o un candidato non vota soltanto per avere un rappresentante in Parlamento, ma anche perché quelle idee e quei programmi vengano realizzati da una maggioranza attraverso un’azione di governo. Proprio come succede oggi nel caso di Macron, l’unico leader europeo in grado di esprimere una visione strategica sul suo paese e sulla UE. Come si vede in Francia, una maggioranza stabile capace di sostenere un governo che abbia il tempo e gli strumenti per raggiungere i suoi obiettivi sono risorse necessarie per valorizzare la rappresentanza politica dei cittadini elettori. Nel caso contrario, la rappresentanza si riduce alla mera fotografia dei rapporti di forza e le scelte rimangono affidate a oligarchie che usano il voto dei cittadini a proprio piacimento. Con la conseguenza di avere maggioranze instabili e governi deboli. Qualcosa che non possiamo più permetterci se davvero si vogliono sfidare le pulsioni populiste e secessioniste che si agitano dentro i confini nazionali e le contraddizioni della globalizzazione che si ripercuotono dentro i confini europei. Una leadership nazionale stabile serve, infatti, anche per due motivazioni fondamentali: perché la crescente richiesta di autonomia da parte delle istituzioni regionali va bilanciata in fase di negoziazione da governi capaci di decidere; perché non si possono rappresentare al livello delle istituzioni comunitarie gli interessi nazionali senza un esecutivo solido e autorevole. Per concludere, per tutti i motivi fin qui squadernati, il semipresidenzialismo deve diventare oggi l’obiettivo concreto dei riformisti se si vogliono adeguare le istituzioni italiane a questo tempo.

Come si vede, il tema è ben più complesso rispetto alla retorica semplicistica della deriva autoritaria che riempiva i dibattiti in occasione del referendum costituzionale del 2016. Qualcuno però potrebbe obiettare – con qualche ragione – che riprendere oggi l’argomento delle riforme dopo la sconfitta bruciante del 4 dicembre sia del tutto irragionevole: un’ossessione da malati di ingegneria costituzionale.

Con un po’ di enfasi potremmo rispondere prima di tutto così: che in una prospettiva liberaldemocratica la Costituzione non è un testo sacro, ma un testo storico prodotto dagli uomini che può essere modificato (come d’altra parte essa stessa prevede) nella logica di un pragmatismo carico di rispetto e di valori. Che se le regole e le istituzioni non funzionano bene non puoi tutelare i diritti. Che il governo non è un nemico dei cittadini, ma lo strumento attraverso il quale si realizzano le politiche pubbliche che originano dai programmi che gli elettori hanno votato. Che la democrazia competitiva non ha nulla a che fare con la finanza internazionale o con il complotto neoliberista, ma è un cardine del costituzionalismo moderno.

Certamente, il contesto politico appare molto più confuso e stagnante e i rapporti di forza sembrano completamente squilibrati nella direzione di un mantenimento dello status quo istituzionale. E tuttavia le strade della politica possono essere imprevedibili e nulla esclude necessariamente che possano crearsi delle condizioni completamente nuove nelle quali forze politiche di diverso segno e di partenza contrapposte, sulla base di rapporti di forza paritari, possano esercitare la responsabilità di dare al paese un futuro migliore. Il ruolo dei riformisti è proprio quello di avere fiducia nel cambiamento che origina dal dialogo, dall’intelligenza, dalla serietà. Infine, dal desiderio degli uomini di vivere in un mondo migliore.

Potremmo dire con Blaise Pascal che è comunque meglio continuare a scommettere sulla possibilità delle riforme. Credere nel cambiamento conviene perché da questa attitudine abbiamo solo da guadagnare.

 

8

Libertà Eguale, ovvero come conciliare libertà e protezione

Come ha scritto tempo fa Enrico Morando, “il PD è un partito di centrosinistra, nato per cambiare l’Italia, secondo i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà, attraverso una nuova alleanza del merito e dei bisogni: le componenti più dinamiche della società unite a quelle più esposte al rischio di esclusione da un credibile progetto di cambiamento, che promuova la coesione sociale anche per raggiungere più elevati traguardi di efficienza economica e metta la crescita del reddito nazionale al servizio di una maggiore giustizia e mobilità sociale”. Non si potrebbe descrivere meglio.

Nonostante il gran lavoro svolto nel recente triennio riformista, resta ancora moltissimo da fare. Possiamo dire, anzi, che i governi Renzi e Gentiloni rappresentano soltanto l’avvio di un processo di trasformazione di cui il nostro paese ha ancora tanto bisogno. Una trasformazione che si declina in una maggiore mobilità sociale per tutti gli italiani, nel limitare sempre più le posizioni di rendita e le chiusure corporative al fine di favorire il progresso di tutti, nell’aumentare il benessere e ridurre le sacche di emarginazione. Dobbiamo far crescere la produttività delle nostre imprese e la ricchezza nazionale perché soltanto così sarà possibile redistribuire risorse a chi sta peggio. Il welfare non può più avere il volto di un paternalismo assistenziale e inefficiente, ma deve essere capace di investire sulle capacità e i talenti delle persone per aiutarle a vivere una vita dignitosa. Serve allargare sempre più gli spazi della concorrenza perché solo così sarà possibile aumentare le opportunità di emancipazione professionale e sociale. Il ritardo del cambiamento nella Pubblica Amministrazione oggi pesa ancora come un macigno sulla voglia di libertà della società e dell’economia. Dobbiamo creare maggiori opportunità per i giovani e le donne, riconoscere e premiare i più meritevoli nella società, nel lavoro e nell’economia.

L’Italia, dunque, ha bisogno di maggiore libertà ovvero di politiche liberali di sviluppo, crescita, liberazione da vincoli eccessivi, libertà di iniziativa, libertà di accesso e di mobilità sociale. Nel frattempo, sembra diffondersi nel paese una diffusa percezione di insicurezza e malcontento. Insicurezza legata alla difficoltà di capire il mondo che cambia e alla impreparazione nell’affrontare questo cambiamento (uncertainty). Insicurezza legata alle trasformazioni sociali ed economiche per causa delle quali diminuiscono le garanzie sociali tradizionali e la vita sociale e familiare è messa in crisi (unsecurity). Insicurezza per la percezione di minacce all’incolumità personale, alla salute, alla vita e alla libertà. Questo mix di incertezza scatena una domanda di protezione sempre più elevata alla quale la politica offre spesso una risposta superficiale fatta di populismo, xenofobia, demagogia e di impossibili promesse di vecchio assistenzialismo.

In effetti, tra le altre cose, l’Italia è ancora uno dei paesi che cresce meno in Europa, tra quelli con la minore mobilità sociale, con elevati livelli di disuguaglianza e con il più rapido invecchiamento della popolazione. Insomma, il bisogno di cambiamento è davvero urgente.

Purtroppo, però, la capacità attrattiva del populismo sulle persone che soffrono impatta profondamente sull’agenda della politica e sfida la ragionevolezza e la razionalità della proposta riformista. C’è il rischio evidente di inseguire i populisti sul loro terreno. C’è il rischio di costruire piattaforme di policies scriteriate per accontentare eventuali partner di governo. C’è il rischio di avallare o addirittura cavalcare gli atteggiamenti antieuropeistici diffusi trasversalmente in tutto il vecchio continente. Sappiamo, tuttavia, per l’esperienza inglese (Brexit) e catalana (indipendentismo) che lo sganciamento dall’Europa o, meglio, la semplice ipotesi di questa uscita nei programmi di un partito vincitore, viene immediatamente recepita a livello internazionale, cioè da governi, istituzioni e mercati, come un vero e proprio salto nel buio. Tanto da provocare la fuga di imprese e investitori.

 

9

Investire sull’Europa, come propone Macron

Per i riformisti democratici e liberali, viceversa, l’Europa continua ad essere la risposta giusta. Non soltanto perché ha garantito fino ad oggi la pace e la prosperità dei popoli europei. Ma soprattutto perché, nel futuro, soltanto la dimensione europea potrà avere le dimensioni e la forza per rispondere alle sfide del tempo e per governare la globalizzazione. Problemi enormi come le politiche fiscali, il welfare, i movimenti migratori, l’accesso al lavoro, la difesa dalla minaccia terroristica, ecc. non possono più essere affrontati dalla debolezza degli stati nazionali, troppo piccoli e inadeguati al compito.

Proprio per questo la relazione di Macron alla Sorbona del settembre scorso rappresenta una straordinaria piattaforma di azione e un punto di svolta. Si tratta di un documento straordinario, ricco di spunti e di proposte al livello della migliore tradizione della politica europea, fortemente intriso di valori democratici, sociali e liberali. Come spiega Macron, gli stati europei devono cedere sempre più ampi margini di sovranità all’Unione, perché soltanto questa è nelle condizioni di svolgere un ruolo nel presente passaggio storico. In questa direzione, si possono segnalare due novità cruciali.

  • La prima riguarda l’impegno per la creazione di un esercito comune europeo. Il 13 novembre scorso a Bruxelles i rappresentanti di 23 paesi europei hanno firmato un accordo con cui si impegnano ad aumentare la spesa militare, a coordinare lo sviluppo e l’acquisto di tecnologie militari e a mettere in comune parti sempre maggiori dei loro eserciti nazionali. Era da quasi 70 anni che i diplomatici europei tentavano di creare un accordo militare europeo e finora non avevano mai avuto successo. La maggior parte degli esperti di questioni militari lo considera un accordo storico. L’accordo sarà definitivamente firmato dai capi di stato e di governo al Consiglio europeo del prossimo 11 dicembre.
  • La seconda riguarda l’impegno per la costruzione di un welfare comune europeo. L’Unione, al di là del mercato unico, dell’economia e dell’euro, è sempre stata fondamentalmente un progetto sociale. Il modello sociale europeo rappresenta un successo e ha fatto dell’Europa un luogo di prim’ordine per vivere e lavorare. Con il vertice sociale di Göteborg del 17 novembre scorso i paesi membri hanno proclamato il pilastro europeo dei diritti sociali e si impegnano per realizzare 20 principi e diritti (dal diritto a un’equa retribuzione al diritto all’assistenza sanitaria; dall’apprendimento permanente e una migliore conciliazione tra vita professionale e vita privata alla parità di genere e il reddito minimo) in un percorso di progressivo allargamento e condivisione della protezione sociale dei cittadini europei.

Ovviamente, all’impegno sulle policies va associato quello per la riforma delle istituzioni europee. Sappiamo, infatti, che la logica intergovernativa non è strutturalmente adeguata a garantire il successo della progressiva unificazione europea. Serve un rafforzamento delle istituzioni comunitarie, sia in termini di capacità rappresentativa dei cittadini al di là delle appartenenze nazionali che nella direzione di maggiori poteri decisionali per la realizzazione delle politiche pubbliche europee. Nella già citata relazione di Macron e nei recenti studi di Sergio Fabbrini possiamo trovare una miniera di proposte e di suggerimenti per realizzare questo progetto. Consapevoli che, per compiere davvero questi cambiamenti, servirà un sempre maggiore coinvolgimento dei paesi membri dotati di una proiezione europeista più convinta e risoluta a scapito di quelli che aderiscono con spirito meramente opportunistico o esplicitamente parassitario.

Anche Matteo Renzi è chiamato ad esercitare una responsabilità sul punto, evitando di cavalcare i cliché della critica populista all’Europa: bene parlare di riforma dell’Unione, ma solo se con l’approccio e gli obiettivi delineati in questo contributo. Per esempio, la strategia di deficit al 2,9 per cento – che sconfesserebbe la linea fin qui tenuta da Padoan e dai due governi del Pd – non è una buona idea, ma appare come un cedimento culturale del riformismo alle parole d’ordine del populismo, di destra e di sinistra. Allo stesso modo, non è una buona idea il passo indietro sull’età pensionabile che è tornato all’ordine del giorno in vista della prossima tornata elettorale.

Non c’è dubbio che l’UE non possa essere ridotta a questione burocratica, così come appare a gran parte dei cittadini. Ma anche per questi motivi bisogna lavorare di più per condividere e promuovere la comune passione per il progetto europeo. Per dirla con la formula di Pietro Scoppola, l’Europa deve diventare una “democrazia dei cittadini”. Il 2018 sarà un anno cruciale per rilanciare con forza l’ideale europeo, raccogliendo il messaggio che ci arriva dalla Francia: un’Europa unita, sovrana e democratica.

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