di Alberto Colombelli
Già mi era accaduto in quella nostra drammatica primavera del 2020, quando solo la Pasqua mi permise di ritrovare la voglia di esprimermi dopo giorni di sofferenza e di silenzio.
Così anche ora, di fronte agli sconvolgimenti che hanno caratterizzato senza sosta questo inizio anno, solo la Pasqua e quello che ne è seguito mi hanno portato a ricondividere qui le mie riflessioni.
Nel ricercare insieme una lettura di questo nostro tempo, sento di poter ripartire da una dichiarazione rilasciata tre anni fa e oggi recuperata.
“Questo è un problema gravissimo che affligge il mondo intero. Ci sono molte analisi sulla guerra di cui si sta soffrendo attualmente in Ucraina. Però dal mio punto di vista si tratta di un’autentica invasione imperialista nella quale la Russia vuole conquistare un territorio per ragioni di potere a proprio vantaggio. Lo fa per questioni di posizionamento strategico, come anche per il grande valore dell’Ucraina dal punto di vista culturale e storico, nonché per questioni di risorse e capacità produttive di suo assoluto interesse. Sono crimini contro l’umanità quelli che si stanno commettendo in Ucraina. Noi dobbiamo tanto pregare Dio per la pace, ma credo che dobbiamo essere più chiari e devono esserlo anche alcuni politici che non vogliono riconoscere l’orrore di questa guerra e la malvagità che la Russia sta realizzando in tutta la sua azione in Ucraina.“ (Vescovo Robert Francis Prevost, 2022)
Pace è la parola con cui Papa Prevost ha aperto l’8 maggio scorso il suo Pontificato ed è quanto ha richiesto con forza anche nel suo primo incontro domenicale con i fedeli in Piazza San Pietro.
Ma questo non significa non poter e non saper distinguere le posizioni presenti in un conflitto tanto drammatico quanto atroce, e innanzitutto che proprio la ricerca della pace non può prescindere da un chiaro e pieno riconoscimento dei rispettivi ruoli di aggressore e di aggredito.
È questa una condizione imprescindibile se si vuole davvero perseguire una pace giusta e duratura.
Così oggi assumono estrema rilevanza le parole della citazione che ho riportato in apertura, pronunciate nel 2022 all’inizio dell’aggressione russa in Ucraina dall’allora Vescovo Robert Francis Prevost, ora Papa Leone XIV.
Si parla di un Pontefice che in questi suoi primi giorni ha dimostrato di pesare con attenzione le parole che pronuncia, nella consapevolezza del grande significato che ciascuna di loro ha: è il primo Papa che ha letto il suo messaggio inaugurale evitando di andare a braccio e di lasciarsi trasportare dalle sole emozioni del momento.
Il suo è un segnale di forte coscienza sulla propria responsabilità personale e sulla sua possibilità di avere davvero una rilevante influenza su quanto in questi ultimi mesi abbiamo più volte definito come un mondo al contrario.
Un contesto quello attuale nel quale si vuole rimuovere con decisione la cultura del politicamente corretto e allo stesso tempo però si confondono le parole, trasformandone il significato, come quando per accordo si intende la resa del più debole.
Questo avviene più trasversalmente di quanto appaia, diventando visione e lettura condivisa del mondo di chi apparentemente sta in posizioni agli antipodi ma che diventano comuni ai loro rispettivi estremi.
In tutto questo vedo anche la risposta che attendevo quando su queste stesse pagine scrivevo che un’altra America ancora esiste e con lei anche un altro mondo ancora capace di riconoscere il valore delle democrazie liberali e dello stato di diritto, del multilateralismo e del diritto internazionale, e con loro di quei valori e di quegli ideali che alla mia generazione hanno permesso concretamente di vivere e conoscere vera pace sin da quando siamo nati.
Papa Leone XIV, da cittadino statunitense, rappresenta la più eclatante rivelazione al mondo che quell’America ancora esiste, arrivando a portare quella risposta che forze democratiche troppo timide e attendiste, vittime di un’esasperata ricerca del consenso tipica del nostro tempo, ancora non erano state capaci di offrire.
Papa Prevost si chiama Robert Francis come Bobby Kennedy.
Mi piace pensare che non sia casuale: è nato nel 1955, tre anni dopo l’ingresso in politica di Bobby Kennedy quando guidò la vincente campagna elettorale del fratello John al seggio di senatore per il Massachusetts.
Mi piace pensare che anche nel segno di Bobby Kennedy a favore di diritti umani e giustizia sociale abbia preso il nome di Leone come chi prima di lui scrisse in tal senso la Rerum Novarum.
Nel frattempo qui da noi c’è chi sente di dover ribadire di volere un’Europa di pace, come se questo non fosse già di per sé insito e assoluto in quella che è l’essenza fondativa stessa dell’Unione europea, come se proprio lei e non qualcun altro stesse andando in una direzione diversa, attribuendole ora come una colpa quella di doversi creare una struttura di deterrenza verso chi, indipendentemente da ogni pretestuoso contesto, ha evidenti mire egemoniche ed espansionistiche che rivendica senza scrupoli e produce crudelmente nei fatti.
Condivido così le parole pronunciate da Carlo Salvioni, Presidente del Comitato antifascista di Bergamo in occasione dello scorso 25 aprile, che ho trovato particolarmente chiare ed efficaci:
“Tutti vogliono la pace, ma i modi per volerla sono diversi. Le opzioni sono due: sventolare le bandiere arcobaleno davanti ai carri armati, pensando che si fermino. O avere una capacità di difesa sufficiente per scoraggiare chi pensa di aggredire.” (Carlo Salvioni, Presidente del Comitato antifascista di Bergamo, L’Eco di Bergamo, 25 aprile 2025)
La settimana prima, a chi mi chiedeva “Già i lupi ci divorano…ma tutti armati fino ai denti sarà questo il deterrente per fermare le guerre e le violenze?”, personalmente mi ero sentito di rispondere così:
“Finora lo siamo comunque stati, delegandolo agli USA, non è che non lo fossimo. Senza le loro armi a nostra difesa non avremmo avuto tutti questi anni di pace. Perché potesse continuare quella situazione servivano tre cose: che gli USA avessero la volontà, la capacità e la credibilità di farlo. Tutte e tre sono venute meno. Così siamo totalmente impreparati e scoperti, esposti a qualsiasi rischio in un mondo sempre più aggressivo. Le armi non le ama nessuno, se ne farebbe volentieri a meno, ma non si può negare che ci sono aggressori molto crudeli in circolazione. Sappiamo chi sono, anche se qualcuno fa fatica a riconoscerli. E sappiamo che si fermano solo se temono chi hanno di fronte, che non deve necessariamente utilizzare quanto ha in dotazione, anzi si spera proprio che non lo faccia mai, ma deve dimostrare di averlo. Questa è la cruda realtà, per ora non vediamo le bombe se non dal divano sugli schermi di fronte a noi, ma già l’economia che viviamo è un’economia di guerra”.
E per descrivere questo nostro tempo ha anche scritto così l’autorevole storico e filosofo Yuval Noah Harari nel suo editoriale sul Financial Times del 18 aprile scorso in riferimento al Presidente USA Donald Trump che tanto ha condizionato questo ultimo periodo:
“(…) le sue politiche sono così coerenti, e la sua visione è così chiara che a questo punto solo l’idea che mentiamo a noi stessi può spiegare la sorpresa collettiva. I sostenitori dell’ordine liberale vedono il mondo come una rete di cooperazione in cui potenzialmente tutti alla fine ci guadagnano. Sono convinti che il conflitto non sia inevitabile. (…) Nella visione trumpiana, al contrario, il mondo è un gioco a somma zero in cui ogni transazione provoca vincitori e vinti. (…) Il mondo ideale di Trump è un mosaico di fortezze, in cui i paesi sono separati da muri finanziari, militari, culturali e materiali. Un pianeta che rinuncerebbe alla potenzialità della cooperazione, ma che secondo Trump e i populisti come lui offrirebbe ai paesi più stabilità e pace. Naturalmente in questa visione del mondo manca una componente fondamentale. Millenni di storia c’insegnano che ogni fortezza probabilmente vorrà un po’ più di sicurezza, di prosperità e di territorio per sé, a spese dei vicini. In assenza di valori universali, istituzioni globali e leggi internazionali, come risolveranno le loro dispute le fortezze rivali? La soluzione di Trump è semplice: il modo per prevenire i conflitti è che il debole faccia tutto quello che pretende il forte. Secondo questa idea, il conflitto avviene solo quando il debole rifiuta di accettare la realtà. La guerra quindi è sempre colpa dei fragili.” (Yuval Noah Harari, Trump’s World of Rival Fortresses, Financial Times, 18 aprile 2025)
A noi il compito di decidere se vogliamo rassegnarci da una posizione o da un’altra a questa visione, di fatto assecondandola.
Che questi ultimi giorni possano davvero rilanciare la speranza nella lettura di questo nostro tempo, liberandoci dal cinismo ma anche dall’ideologia e dalla ricerca del consenso fine a sé stessi.
“Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.” (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, capitolo XXXII)
Come sempre il cambiamento parte e dipende da ciascuno di noi.
Consulente d’impresa, esperto in Corporate Banking. Già delegato dell’Assemblea Nazionale del Partito Democratico, è attivo nell’Associazione europeista Freedem e nell’Associazione InNova Bergamo. Ha contribuito al progetto transnazionale di candidatura UNESCO delle ‘Opere di difesa veneziane tra il XV e il XVII secolo’. Diplomato ISPI in Affari europei. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. E’ impegnato nella costruzione di una proposta di alleanza tra tutti gli europeisti riformatori.