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La solitudine di Israele

Giovanni Cominelli martedì 3 Giugno 2025
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di Giovanni Cominelli

 

Alla preoccupazione di molti democratici europei che la politica di Netanyahu possa essere suicida ai fini dell’esistenza di Israele, la maggioranza degli Israeliani risponde che non c’è altra strada. Da duemila anni gli Ebrei sono stati perseguitati, dispersi, uccisi. Nessuno li ha mai aiutati, tutti li hanno solo provvisoriamente utilizzati. Dovranno continuare a fare da soli, a dispetto di mutevoli e strumentali appoggi.

La maggioranza degli Israeliani pare essere rassegnata alla teoria fatalista per la quale ogni generazione ebraico-israeliana è chiamata ora, in futuro e per sempre, a combattere per l’esistenza dello Stato ebraico. Questo sarebbe il destino del “popolo eletto” da duemila anni: combattere sempre. Ma è sempre più forte la sensazione che Israele stia diventando ostaggio di una fiera e pericolosa solitudine, fondata su alleanze politiche friabili e sulla sola certezza della potenza militare convenzionale e nucleare, da applicare in maniera incessante in tutte le direzioni.

Eppure, se gli israeliani non si sforzano di comprendere le ragioni storiche dei Palestinesi, sarà – è! – impossibile spezzare la spirale del Talmud babilonese: “Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo per primo”. Con questa procedura, alla fine, non rimarrà vivo più nessuno.

Il trauma palestinese

La fondazione di uno Stato ebraico sovrano – denominato Israele – in una Palestina che nel corso di duemila anni aveva mutato radicalmente la composizione etnica rispetto al 70 d. C., anno della distruzione del Tempio di Gerusalemme – ha provocato una “Nakba” o catastrofe: la maggior parte del territorio palestinese, che per oltre un millennio era stata a maggioranza araba, è stata trasformata in un nuovo Stato a maggioranza ebraica. Si è trattato di una sostituzione etnica, che ha prodotto migliaia di feriti e di morti e l’espulsione di circa 700 mila Palestinesi dal territorio da loro abitato da secoli, insieme a minoranze ebraiche e cristiane. Nel 1948, nel 1967, nel 1973 prima gli Stati arabi e poi, e in parallelo, le organizzazioni di Resistenza palestinesi – tra le più importanti l’OLP/Al Fatah di Arafat, il FPLP di Habbash, il FDLP di Hawatmeh, Hamas, la Jihad Islamica Palestinese, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa – hanno tentato di ripristinare la condizione precedente, lanciando guerre statali, movimenti armati, attentati terroristici, due intifade, fino al massacro del 7 ottobre 2023… .

L’idea-guida è sempre stata quella di distruggere lo Stato di Israele. Gradualmente, e a prezzo di morti e di massacri, i Palestinesi hanno modificato a poco a poco la propria posizione. La prima “Carta nazionale” dell’OLP, adottata nel 1964, affermava che la Palestina era un Paese arabo, nel quale i diritti nazionali appartenevano unicamente a coloro che vi risiedevano da prima del 1917 e ai loro discendenti. Questo gruppo includeva gli Ebrei residenti in Palestina, ma non quelli che vi erano immigrati dopo la “Dichiarazione Balfour” del 1917, che, dunque, sarebbero stati espulsi. Dopo la sconfitta araba del giugno del ’67, venne proposta l’idea di uno Stato democratico palestinese laico per arabi ed ebrei, dal quale gli Ebrei non potevano più essere costretti ad andarsene. Questa proposta non era però accettabile dagli  Ebrei-Israeliani, perché non erano riconosciuti come un popolo avente dei diritti nazionali e perché negava legittimità allo Stato sionista. Così è venuta avanti una terza ipotesi, in particolare su suggerimento dell’Unione Sovietica: quella uno Stato palestinese accanto a Israele, cioè “Due popoli, due Stati”.

Il blocco reciproco

L’ipotesi non ha conquistato né le masse arabe né la maggioranza degli Israeliani. Anche a seguito dell’aggravarsi del disordine mondiale, tra il 1999 e il 2001 – ascesa di Putin e Torri Gemelle –  sono diventate egemoni le posizioni estreme in Israele e in alcuni settori del movimento di resistenza palestinese, da Hamas ai Fratelli mussulmani. Sulla scia di Begin, di Shamir e di Sharon, Benjamin Netanyahu continua ad opporsi alla creazione di uno Stato palestinese e al controllo palestinese della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. La colonizzazione in corso in Cisgiordania ne è la conseguenza. Correnti più radicali sognano la “Grande Israele”, dal Nilo al Giordano. Insomma: la Palestina o è israeliana o non è. Hamas, i Fratelli mussulmani e il loro grande protettore, l’Iran, a loro volta sostengono la tesi simmetrica e opposta: la Palestina è araba dal Giordano al mare.

Alle spalle di queste due posizioni estreme, oggi prevalenti, sta un falso storico-ideologico tossico.

Un popolo eletto? Terre promesse?

Qualsiasi cosa raccontino o “rivelino” di sé gli Ebrei, i Cristiani, i Mussulmani, gli Indù, i Buddisti o i suprematisti bianchi…, non esiste nessun “Popolo eletto” da Dio, non si intravedono né arrivi né partenze da/per “la Terra promessa”, non si dà nessun “Destino manifesto” per nessuna Nazione. La storia umana non è storia sacra. Il Dio cui si attribuiscono “elezioni” e “terre promesse” è stato inventato dai gruppi etnici e dai popoli nel corso del tempo. Ciascuno si è inventato un Dio rivale di ogni altro Dio. Si tratta di un Dio etnico, di un Dio politico, di un Dio terreno. E’ un Dio degli atei, è un Dio … ateo. Il racconto che Israele ha costruito della propria vicenda storica in Palestina, è, al riguardo, un paradigma. Gruppi di pastori nomadi – chiamati Ebrei – provenienti dalla Mesopotamia e dal Sinai, dopo la sconfitta egizia di Kadesh del 1296 a. C. ad opera degli Hittiti – combatterono, sottomisero, espulsero o uccisero gli abitanti di quella che chiamavano “Filistin” o “Falastin” o anche “Canaan” o infine “Palestina”. Li hanno “sostituiti”. La Bibbia documenta ampiamente questa storia. Poi arrivarono  gli Assiri, i Babilonesi, i Persiani, i Romani, i Bizantini, gli Omaiadi, gli Abbasidi, i Fatimidi, i Crociati, i Selgiuchidi  e, infine, i Turco-ottomani. Ciascuno di loro fece, più o meno, lo stesso con i precedenti. Il fatto è brutale: ogni frontiera storica gronda sangue, senza eccezioni.

La sacralizzazione della storia ha sempre portato con sé la pretesa di ciascuno che sia stato scacciato da una terra di ritornarvi. La storia diventa così una spirale di politiche di sottomissione o di annientamento. Tra il 1917 e il 1948, gli Ebrei sono riusciti a tornare in Palestina. Come? Attraverso l’iniziativa economica e imprenditoriale, con l’azione politico-diplomatica e con la lotta armata dell’Irgun e dell’Haganah e dell‘ IDF rivolta contro i Palestinesi residenti. La storia è andata così. Si può riavvolgere il tragico film? No. Si può solo tentare di girarne un altro. Finita la pellicola del “Due popoli, due Stati”, ne resta solo un’altra: uno Stato democratico-federale per tutti.  Se gli Ebreo-Israeliani e i Palestinesi non saranno in grado di fare questo salto culturale, cadranno in rovina ambedue.

 

Pubblicato su www.santalessandro.org il 3 giugno 2025

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