di Giovanni Cominelli
L’Aprile 2025 è stato un mese di anniversari cruciali per la memoria collettiva. In primis, il 25, ottantesimo della Liberazione.
Il 16 è stato il cinquantesimo dell’assassinio di Claudio Varalli, un diciottenne militante del Movimento studentesco, ucciso da un colpo di pistola, sparato da Antonio Braggion, un giovane militante di Avanguardia Nazionale, in Piazza Cavour a Milano.
Il 17 è stato il cinquantesimo della morte di Giannino Zibecchi, schiacciato contro un muro da un camion dei carabinieri, in Corso XXII Marzo, a Milano, nel corso di un assalto dei Comitati antifascisti alla sede del MSI di via Mancini.
Qualche giorno dopo, il 29, moriva Sergio Ramelli, diciottenne militante del Fronte della Gioventù, colpito il 13 marzo precedente con spranghe da un gruppo di Avanguardia operaia.
L’anno dopo, il 27 aprile 1976, sarà colpito a morte da un gruppo di militanti neofascisti Gaetano Amoroso, giovane operaio dei gruppi marx-leninisti.
Così, due giorni dopo, Prima Linea e i Comitati comunisti rivoluzionari uccideranno, in risposta, il Consigliere provinciale del MSI Enrico Pedenovi. Nel pomeriggio avrebbe dovuto partecipare alla commemorazione di Sergio Ramelli…
Quell’aprile ‘75 fu solo un anello della catena di una guerra civile a bassa intensità, incominciata con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, poi proseguita con Gioia Tauro del 22 Luglio 1970, con Piazza della Loggia Maggio, 28 Maggio 1974, con l’Italicus, 4 Agosto 1974 fino alla strage di Bologna, 2 Agosto 1980.
La storia che abbiamo vissuto non è capitolo chiuso
Negli interstizi temporali di queste stragi furono perpetrati, ad opera di organizzazioni di estrema destra e di estrema sinistra, attentati, assassini di militanti di destra – basterà citare qui l’orribile incendio di Primavalle – e di sinistra, di giornalisti, di giudici, di poliziotti, in un tragico passaggio dalle spranghe, alle bottiglie molotov, alle P38 alle bombe. Più di 350 morti e più di mille feriti.
Questa è la storia che abbiamo vissuto. Capitolo chiuso? Per niente. Perché, a ottant’anni dalla Liberazione e a quarant’anni dal decennio post-68, antifascismo e fascismo tornano ad affrontarsi, sia pure solo e per fortuna in forma di verbigerazione mitologica e di riti autoconsolatori.
Il fatto è che la Presidente del Consiglio, vari Ministri e il Presidente del Senato provengono da quel MSI (poi MSI-DN, poi AN, poi Fratelli d’Italia), che oscillò, almeno fino alla metà degli anni ’70, tra la parola d’ordine opportunistica del “né rinnegare né restaurare” e la vischiosa contiguità con i movimenti neofascisti rivoluzionari ed eversivi quali Ordine Nero, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Terza posizione, Nuclei armati rivoluzionari…
Così Meloni, La Russa e soci, benché abbiano ribadito più volte il giudizio storico negativo sul Fascismo, vengono permanentemente convocati alla sbarra di un improbabile Tribunale antifascista per fornire prove di distacco dal fascismo.
La metamorfosi dell’antifascismo
Intanto, l’antifascismo è cambiato rispetto agli anni della Prima Repubblica. Essa era fondata su due pilastri. Il primo era l’anticomunismo, nella forma del “Fattore K” o della “conventio ad excludendum”: il PCI non poteva/doveva andare al governo. Il secondo pilastro l’antifascismo.
Esso svolgeva una funzione ideologica e politico-istituzionale opposta: se il PCI era “escluso” dal governo, veniva “incluso” dall’antifascismo, che lo metteva al pari con gli altri partiti, istituendo l’arco costituzionale.
Funzionava come ideologia della legittimazione in vista del governo. Donde la polemica con l’antifascismo rivoluzionario della sinistra extra-parlamentare e del partigianesimo della “Resistenza tradita”.
Dopo il 1989 questo tipo di antifascismo ha perduto ogni funzione. L’ANPI si è trasformata in un partito pot pourri della sinistra, essendo i partigiani autentici ormai agli sgoccioli, mentre il nuovo antifascismo si è dato una nuova missione: la delegittimazione della destra al governo. Prima contro Berlusconi, oggi contro la Meloni. Sotto sta una nuova idea: all’inclusione de facto dei “fascisti” opporre una “conventio ad excludendum”, almeno ideologica.
La purificazione liberal-democratica della memoria
Perciò l’ideologia della guerra civile torna periodicamente ad imperversare. Così continua a mancare la risorsa fondamentale per il governo democratico del Paese: la reciproca legittimazione delle forze politiche. L’effetto è ciò che la storiografia e la pubblicistica denunciano da anni: “il Paese mancato”, “sospeso”, “sbagliato”, “vuoto”. Il Paese “del non-governo”, “dell’immobilismo perverso”, “del debito pubblico”, “degli evasori”, “sotto tutela”…
Come chiudere la guerra civile?
La memoria è calda e faziosa. E’ una cattiva consigliera. E’ a ciclo breve, perché le generazioni passano. Dalla memoria potremmo solo attenderci la pietà per tutte le vittime della guerra civile degli anni ’70.
Essa ha lasciato una scia di sangue, di dolori, di morti. Ma è ora di purificare la memoria per passare al livello dei giudizi di valore. Se le vittime sono tutte eguali, i colpevoli devono essere tutti distintamente giudicati sulla base di un criterio etico-politico condiviso: la democrazia liberale.
Essa è fondata sulle libertà e la dignità di ogni singola persona, sullo Stato di diritto, sulla separazione e il bilanciamento dei poteri.
Se assumiamo questo criterio di giudizio, si dovrà constatare che le generose generazioni “rivoluzionarie” degli anni ’60 – tra cui lo scrivente – di sinistra e di destra, hanno invece condiviso il mito della violenza redentrice, quale ordinario strumento di lotta politica e quale modo per rifare il mondo.
La loro disponibilità culturale e psicologica alla violenza le ha esposte al potenziale uso eversivo da parte di soggetti politici e di apparati antidemocratici. Non c’è qui lo spazio per documentare quanta ideologia della violenza – dal sorelismo al futurismo, dal nazionalismo alle trincee della Prima Guerra mondiale – sia stata iniettata nella società italiana lungo il biennio dell’assalto rosso e della reazione nera fino ad approdare all’assassinio di regime di Giacomo Matteotti.
Le minacce alla democrazia non sono finite
E quale fiume di sangue sia stato rovesciato nelle società europee dal 1939 al 1945, in quell’intervallo di storia barbara del ‘900 . Né per raccontare quanto i movimenti di liberazione nazionale, la guerra del Vietnam e la teologia della liberazione abbiano fatto credere già negli anni ’60 che la liberazione umana poteva nascere solo dalla canna del fucile.
Così, alla giovane sinistra estrema parve che il comunismo fosse maturo e alla giovane destra estrema che il fascismo fosse, di nuovo, necessario. Pertanto la violenza rivoluzionaria tornava attuale.
Alla luce del giudizio etico-politico liberale, risulteranno più nitide le minacce attuali alla democrazia liberale. Esse non sono più riconducibili al fascismo storico e non si combattono con i miti dell’antifascismo storico. Più pericoloso per la democrazia oggi è chi proclama che, se hai vinto le elezioni, tutto ti è permesso, fino a praticare la violazione dei principi dello Stato di diritto, della separazione dei poteri e della sovranità nazionale.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.