di Salvatore Curreri
Con il c.d. referendum sulla cittadinanza si vogliono dimezzare – da dieci a cinque – gli anni di residenza legale richiesti affinché lo straniero possa richiedere la concessione della cittadinanza italiana.
Per raggiungere tale obiettivo il referendum manipola le attuali disposizioni in materia con la c.d. tecnica del “taglia & cuci”, cioè abrogando parti del testo in modo tale da costruire la disposizione voluta.
Oggi, infatti, la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno “allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica” (art. 9.1 lett. f) legge n. 91/1992).
Per raggiungere l’obiettivo del dimezzamento dei tempi i promotori del referendum da un lato propongono l’abrogazione totale della suddetta disposizione, dall’altro intervengono su un’altra disposizione (la lettera b) del medesimo articolo) in base a cui la cittadinanza può essere concessa allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che dopo l’adozione ha risieduto legalmente in Italia per almeno cinque anni.
Abrogando dalla disposizione il riferimento all’adottato e all’adozione, essa consentirebbe di concedere la cittadinanza (sottolineate le parti oggetto del referendum) “allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione;”.
Un’operazione manipolativa approvata dalla Corte costituzionale, che ha ammesso il referendum (sentenza 11/2025).
È evidente che dimezzando da dieci a cinque gli anni di residenza legali necessari – termine peraltro previsto prima della legge del 1992 – si vuole favorire l’accesso alla cittadinanza degli stranieri di c.d. prima generazione che vivono regolarmente in Italia ai fini di una loro piena integrazione. In tal modo, infatti, essi potrebbero esercitare quel diritto di voto che è l’unico loro precluso dopo il rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo. Inoltre, tali stranieri, una volta acquisita la cittadinanza, la trasmetterebbero ai figli minori conviventi, nati e residenti legalmente nel nostro Paese (c.d. stranieri di seconda generazione), evitando loro – come oggi accade – di dover aspettare di compiere la maggiore età per richiedere (entro un anno) la cittadinanza italiana, con tutte le ben note limitazioni che tale esclusione comporta rispetto ai loro coetanei italiani.
Ma è altrettanto evidente che il significato del referendum va al di là delle singole disposizioni che ne sono oggetto per incidere sull’indirizzo della politica immigratoria del nostro Paese non, come pur si afferma, per “regalare” la cittadinanza ma per premiare con essa chi ha scelto di vivere e lavorare legalmente nel nostro Paese.
Difatti, come anche dimostrano anche le recenti iniziative del Governo in materia di cittadinanza degli italiani all’estero, l’attuale disciplina legislativa sulla cittadinanza è inadeguata e contraddittoria.
Inadeguata perché varata quando il nostro Paese era più terra d’emigrazione che d’immigrazione (nel 1992 gli stranieri erano 600 mila; oggi sono 5,2 milioni, pari a 8,8% popolazione residente; dati censimento 2021).
Contraddittoria perché, in assenza di limiti generazionali, riconosce la cittadinanza a discendenti di emigrati che vivono da tempo all’estero, e che di Italia sanno poco o nulla (a cominciare dalla lingua) e che magari sono solo interessati ad avere il passaporto italiano oppure ad accedere al nostro Servizio sanitario, mentre di contro la negano agli stranieri che da tempo lavorano regolarmente in Italia e vivono spesso “all’italiana”, rispettando se non talora condividendo la nostra cultura e le nostre tradizioni.
No taxation without representation fu lo slogan dei coloni americani contro la Madre Patria inglese.
Dopo più di duecentocinquanta anni, il Sì al referendum consentirebbe di riaffermare tale principio.
Professore in Istituzioni di Diritto pubblico e coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza nella Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche – Libera Università degli Studi di Enna “Kore”