di Vittorio Ferla
Le regionali in Liguria si concludono con un risultato per molti versi inaspettato se si pensa al modo in cui le due coalizioni arrivavano alla sfida elettorale.
Il centrodestra si è presentato alla competizione portando l’onta degli scandali che avevano travolto Giovanni Toti, costringendolo alle dimissioni e provocando le elezioni anticipate. L’onda mediatica del discredito è proseguita perfino a urne aperte con Report, la trasmissione di Sigfrido Ranucci, focalizzata sulle magagne della giunta regionale uscente e il sistema di potere connesso.
Il centrosinistra, o, meglio, quello che resta del “campo largo”, è arrivato tronfio all’appuntamento finale, confidando sulla forza di inerzia di una sua presunta missione redentiva nei confronti della politica ligure corrotta piuttosto che su una seria proposta di governo per la regione. In altri termini, ancora una volta – l’ennesima – il Pd e il M5s hanno pensato che fosse sufficiente fare la parte dei duri e puri contro la forza maligna e demoniaca dell’avversario, cavalcando la tigre del giustizialismo. Gli elettori hanno respinto questo approccio idealistico e inconcludente, del tutto privo di appeal e di concretezza. Ci sarebbe da aggiungere: per fortuna.
Bisognerebbe infatti augurarsi per il bene futuro del paese che l’alternanza democratica non sia il frutto di uno schema sempre più stantio: la caduta dei corrotti a vantaggio degli onesti. Soprattutto, è auspicabile che il risultato della competizione politica non sia più la conseguenza delle sentenze della magistratura. Questo modello nasce ovviamente sulle macerie di Tangentopoli e ormai da trent’anni ritorna ciclicamente nella deficitaria strategia del centrosinistra. Già gli anni del berlusconismo hanno dimostrato che, al di là di singoli episodi, si tratta di una strategia perdente.
Il fatto che per l’ennesima volta i cittadini – in questo caso, quelli liguri – abbiano fatto spallucce nei confronti delle sentenze dei tribunali contro la politica rappresenta un segno di salute democratica che il Pd e i suoi alleati dovrebbero una volta per tutte accettare in vista delle prossime sfide elettorali.
La scelta del candidato – l’altro elemento rilevante della sfida ligure – è un corollario inevitabile del postulato giustizialista. È ovvio che se sono convinto di vincere a mani basse sol perché dall’altra parte ci sono i cattivi e i corrotti penserò di poterlo fare anche con un candidato grigio e modesto come Andrea Orlando. L’ex ministro si è battuto con passione e determinazione ma quale appeal può avere una figura come la sua?
Siamo di fronte infatti al più classico burocrate di partito che ha attraversato tutte le vicende degli ultimi decenni: dal Consiglio comunale della Spezia alla segreteria della federazione cittadina, responsabile enti locali – da sempre ruolo-chiave nell’apparato – con Piero Fassino nei Democratici di sinistra, responsabile per l’organizzazione nella segreteria del Pd con Walter Veltroni, eterno navigatore delle segreterie dem sotto Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani, che lo sceglie come responsabile giustizia, quindi nemico giurato di Matteo Renzi e competitor sconfitto per la segreteria – ruolo che gli ha fatto guadagnare i galloni di rappresentante della sinistra dem – fino al ruolo di vicesegretario con Nicola Zingaretti quando si avvia l’opera di normalizzazione del Pd con la lavanda gastrica operata sul partito ai danni dei riformisti.
Nel frattempo, all’attività di parlamentare Orlando ha associato un filotto di ruoli di governo – ambiente, giustizia, lavoro e politiche sociali – nei quali non ha lasciato tracce indelebili del suo passaggio. Grazie a questo cursus honorum di incolore rappresentante della sinistra interna ha goduto anche della stima di Goffredo Bettini, il guru del partito romano che ha avuto un ruolo nella sua elevazione nelle gerarchie del partito fino alla definizione della sua candidatura a Genova. È vero che Orlando ha preso 282.669 voti contro i 269.186 voti delle liste a suo sostegno, ma questo spiega più la debolezza della coalizione che la forza del candidato.
Una figura ‘noiosa’ come quella del candidato dem serviva per rassicurare la classe dirigente del Pd e il suo zoccolo duro di elettori, ma non poteva certamente esibire l’appeal sufficiente per conquistare gli elettori decisivi: che, con buona pace di Elly Schlein e dei suoi sodali, restano sempre quelli di centro.
Basta leggere le analisi dell’Istituto Cattaneo per scoprire l’acqua calda che tutti gli uomini e le donne di buona fede già conoscono. Come si legge nel breve rapporto del centro studi bolognese, nel confronto tra il voto alle europee dello scorso giugno e il voto per le regionali, “l’elemento di maggiore rilievo sostantivo è la considerevole fetta di elettori dell’ex terzo polo (Azione, Italia Viva, +Europa) confluita nelle liste dei partiti di centrodestra”. Un dato che la dice lunga sulle elezioni in Liguria, ma che è soprattutto una lezione in vista delle prossime scadenze elettorali: senza il pilastro riformista non è possibile edificare un centrosinistra capace di esprimere una vocazione di governo, l’unica che può conquistare la fiducia della maggioranza degli elettori.
Anche perché, nel frattempo, non vi sono apporti al “fu” campo largo da parte dall’elettorato avversario: i voti di Orlando, spiega il Cattaneo, arrivano nella quasi totalità dal proprio elettorato di riferimento. Viceversa, Marco Bucci, il vincitore della sfida, ha convinto non solo una quota consistente degli ex elettori dell’area liberale-europeista dello schieramento progressista ma anche una piccola parte dell’elettorato che alle europee aveva votato M5s e Pd. Questi flussi, infine, hanno permesso al centrodestra di bilanciare le defezioni causate dall’ampliamento dell’astensionismo.
A questo punto Elly Schlein si trova nella palude di una contraddizione difficile da sciogliere. Da un lato, è riuscita a rimotivare e a riunire la sua base elettorale: il Pd in Liguria si attesta al 28%, diventando la forza di maggioranza relativa, proprio mentre i pentastellati crollano miseramente, giunti oramai alla fine della loro parabola storico-politica. Dall’altro lato, però, questo recupero obiettivo è messo a disposizione di un disegno populista e radicale che continua a fare di Giuseppe Conte – l’uomo che ha messo il veto contro Matteo Renzi, ovvero contro l’elettorato necessario e indispensabile perché il centrosinistra possa affermarsi nelle sfide future contro la maggioranza di governo – il “punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”. Il modo migliore per garantire a Giorgia Meloni una lunga vita al governo.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).