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L’incompetenza al potere e la crisi della scuola

Giovanni Cominelli martedì 21 Agosto 2018
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di Giovanni Cominelli

 

Non passa giorno senza che il personale politico di governo offra prove di volgarità, incompetenza, disprezzo della Costituzione e delle leggi, violenza verbale contro gli avversari. Prove di giacobinismo plebeo, che ha quale nucleo teorico profondo l’idea che le leggi e lo Stato sono sottoprodotti contingenti e mutevoli della politica come volontà di potenza del Popolo. Se ciò scandalizza il buon senso, resta tuttavia da spiegare perché tali comportamenti riscuotano tanto plauso dal “senso comune”. Perché l’ignoranza attiva – il rifiuto consapevole di sapere per deliberare – ha un successo fino ad ora crescente? Alcuni opinionisti – da ultimo Giovanni Orsina – per un verso rinviano a un filone profondo della storia socio-politica europea, per altro verso alla rottura del rapporto intellettuali-masse, che nel secondo dopoguerra avrebbe consentito di civilizzare gli animal spirits, in nome del primato universalmente accettato delle competenze.

 

Gli insegnanti hanno perso il senso della loro missione

Già, gli intellettuali! Sono loro che hanno costruito il cervello sociale? Se ne analizziamo da vicino la struttura delle sinapsi, avvertiamo da subito che i “grandi intellettuali” – filosofi, scrittori, teologi, politologi, scienziati… – hanno parlato direttamente ad intellettuali o ad aspiranti tali, senza mai influenzare direttamente la mentalità e la psicologia popolare. Tra loro e il popolo altri hanno fatto da mediatori e interpreti: gli insegnanti, i docenti universitari, i preti, i funzionari di partito, cioè la Scuola, l’Università, la Chiesa, il Partito. Saltata o ridotta al lumicino tale mediazione culturale, i “grandi intellettuali” hanno continuato a mandare messaggi, ma non arrivano più all’orecchio di nessuno se non a loro medesimi. Intanto la cosiddetta “semiosfera” si é gonfiata a dismisura: la Rete è il nuovo cervello sociale e intellettuale collettivo.
Limitiamoci qui alla Scuola e all’Università, perché, diversamente dalla Chiesa e dal Partito, si tratta di istituzioni pubbliche, cioè universali. E perché, ad ogni fine dell’estate, le scuole e le università riaprono i battenti. Nelle scuole dimorano fino al giugno dell’anno successivo 8 milioni di ragazzi, dai 6 ai 9 anni, e 800 mila insegnanti. Le Università sono frequentate da circa 1 e 700 mila studenti, i docenti sono circa 64 mila. Se siamo alla ricerca di chi influenza decisamente la costruzione dello spirito pubblico del Paese, lo abbiamo trovato. I docenti delle scuole e i professori universitari sono una straordinaria massa di educatori. Mentre trasmettono nozioni, testimoniano, volontariamente o meno, la propria visione della vita, del mondo, dello Stato, della società. La loro influenza può decrescere o aumentare nel passaggio dai primi agli ultimi gradini del percorso scolastico e universitario, ma resta enorme. Limitiamo ulteriormente qui lo sguardo sugli insegnanti.

Qual è la loro cultura politica? Una pista per una possibile risposta è il seguente dato: il 43% dei docenti della Scuola ha votato il M5S, secondo un’indagine dell’Istituto Cattaneo di Bologna. Per quasi la metà dei docenti della scuola italiana le idee di Stato, società, politica, democrazia, ruolo del sapere e della scienza, funzione dalla scuola sono, grosso modo, le stesse di Grillo, Di Maio, Fico. C’è da stupirsi se i giovani e i laureati hanno votato in maggioranza il M5S? In attesa di indagini scientifiche sul personale scolastico – sono ormai lontane nel tempo le ricerche dello IARD – si deve procedere, almeno in modo “nasometrico”, ad interrogarsi sulla condizione della scuola italiana, sulle modalità di formazione, selezione, reclutamento del personale docente. Qualcosa di empiricamente constatabile si può già riconoscere: gli insegnanti hanno perduto il senso della loro missione.

 

La missione della Scuola resta. Mancano i missionari

Nella scuola liberale e poi fascista – di cui Gentile ha rappresentato la sintesi più efficace – la missione degli insegnanti era costruire la Patria, connettere Stato e nazione, formare cittadinanza. Erano agenti fondamentali della nazionalizzazione delle masse. Questa missione era il fondamento del prestigio e del ruolo sociale del docente. Nei testi ministeriali e degli esperti, la missione è rimasta, persino trasformata in materia: Educazione civica, Educazione alla cittadinanza… Ma sono venuti meno “i missionari”. All’inizio della “catastrofe della missione” sta l’anno 1963, quando l’introduzione del pre-salario nelle Università e della Scuola media unica squarciò il velo di classe che copriva il sistema scolastico, immettendo improvvisamente grandi masse di ragazzi nella scuola e più tardi nell’Università. Sì, la scuola formava alla Patria, ma a quella dei pochi. Formava alla Patria, ma a quella delle élites. Arretrata rispetto alla modernità intellettuale e tecnico-scientifica nei contenuti, riservata a pochi. Di qui l’esplosione del ’68, che rivendicava esattamente l’opposto: l’accesso universale al sapere moderno umanistico e professionale, richiesto dalla seconda fase della società industriale. La critica del sapere cosiddetto “borghese” non ha mai significato il suo rifiuto in quanto sapere, ma semmai il tentativo generoso e, qualche volta, velleitario di porlo “al servizio delle masse popolari”.

 

La vecchia scuola gentiliana ha resistito impavidamente

Occorre prendere atto che la scuola italiana di conio gentiliano ha resistito impavidamente alla tempesta del ’68. Le classi dirigenti del Paese hanno risposto con il lassismo senza riforme, con la scuola di massa, senza qualità rinnovata. Come ha influito tutto ciò nella formazione, selezione, reclutamento dei docenti? Da protagonisti di una missione civile a impiegati del pubblico impiego. Non così per tutti. Una minoranza di giovani del ’68 ha scelto la professione dell’insegnante in nome di una nuova missione: “studiare, insegnare, lottare per il socialismo”, la scuola per la rivoluzione. Tuttavia, l’assetto istituzionale-amministrativo della scuola è rimasto quello storico gentiliano. I Decreti delegati hanno aperto la strada a nuovi organi collegiali e territoriali quale esito istituzionale delle domande di partecipazione e di codecisione, con il risultato di giustapporre genitori e scuole, aumentando la conflittualità. I docenti si sono sindacalizzati e corporativizzati. Ciò che è rimasto, sul fondo, è il cattivo rapporto degli insegnanti con lo Stato e il deterioramento del loro rapporto con la società civile. La scuola ha cessato di essere, almeno nella coscienza della maggioranza degli addetti, il luogo della formazione della Patria; è diventata solo un posto di lavoro statale garantito a vita, senza premi e senza punizioni. La scuola non è una comunità educante, ma una repubblica di singoli, che i ragazzi attraversano, vivendo come esperienza centrale non il rapporto educativo con i docenti, ma il rapporto tra pari.

 

Un riformismo occasionale

Rispetto agli altri Paesi europei, le classi dirigenti italiane non hanno risposto al ’68 con cambiamenti strutturali dei sistemi scolastici; hanno praticato un riformismo occasionale, puntiforme, reversibile, condizionato da sempre dall’instabilità dei governi e dalla costante ascesa del potere di veto corporativo dei sindacati. I quattro pilastri del sistema educativo nazionale – il curriculum, gli ordinamenti, il personale, l’assetto istituzionale amministrativo – sono corrosi in profondità. Da 50 anni a questa parte la classe dirigente del Paese ha dimenticato che la Scuola e l’Università determinano la condizione spirituale del Paese. Ora ne raccogliamo le ceneri. E il distacco tra élites e popolo? E’ il risultato di quell’oblio.

 

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