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Marino, profeta narcisista?

Claudio Alberti venerdì 23 Ottobre 2015
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“Se c’è qualcuno in questa assemblea, qualcuno dei cari amici di Cesare, a lui io dico che l’amore di Bruto per Cesare non era minore del suo. Se, poi, quell’amico chiedesse perché Bruto insorse contro Cesare, questa è la mia risposta. Non è che amo Cesare di meno, ma è che amo Roma di più.”

E alla fine, grazie al discorso di Bruto nel Giulio Cesare di Shakespeare, lo slogan di Marino “Non è politica, è Roma”, finisce per rivolgersi contro di lui. Il Partito Democratico ha scaricato, nelle ultime settimane, il sindaco marziano, non perché ami Cesare-Marino di meno di molti suoi pasdaran che in questi giorni affollano (molto di più) i luoghi virtuali dei social network e (molto di meno) i luoghi fisici come piazza del Campidoglio al grido di “Ripensaci”, ma perché ama Roma più di loro. Ama Marino perché è stato protagonista del suo percorso da sindaco, perché lo ha scelto nel vuoto della sua classe dirigente, perché, con tutti i suoi enormi limiti di forza politica bacata in alcuni elementi di malaffare e clientelismo (come fanno credere le carte dell’inchiesta “Mondo di mezzo”), ha sostenuto le sue battaglie più difficili, e ancora oggi le rivendica come successi propri. Ama Roma perché sente quanto il legame dell’amministrazione con la città si sia rotto, perché decide di andare oltre il formalismo fintamente ingenuo di chi dice “È stato eletto per governare 5 anni, ora governi 5 anni”, pur sapendo che questa scelta potrebbe consegnare, l’anno prossimo, il Pd stesso a una sonora sconfitta alle amministrative. Proprio come Bruto, insomma, il Pd potrebbe fare una brutta fine, stretto nell’angolo da chi lo accuserà di essere stato troppo con Marino (sindaco poco amato da larghe fette dell’opinione pubblica) e chi lo accuserà di esserci stato troppo poco.

Esserci stato troppo è da intendersi in senso temporale, non di intensità, per l’esserci stato troppo poco, invece, vale il discorso contrario. Il Pd, per questo, non è mai stato il “braccio armato” di un Marino presentatosi a Roma con l’intenzione di cambiarla da cima a fondo in un modo che piaceva molto a lui e non si sa quanto ai romani. Un innovatore, un profeta che amava farsi un nemico al giorno per scoperchiare e rovesciare gli antichi vizi romani e romaneschi, e che sembra uscito dal sesto capitolo del Principe, “lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi difensori tutti quelli che delli ordini novi farebbono bene. (…) È necessario (…) esaminare se questi innovatori (…) per condurre l’opera loro bisogna che preghino, ovvero possono forzare. Nel primo caso capitano sempre male”. L’innovatore Marino ha pregato il Pd nel modo sbagliato, non facendosi aiutare, dandogli addosso ogni volta che ne aveva la possibilità, ritenendolo (alcune volte non a torto) parte del problema: è uscito da questo gioco del cerino come un profeta disarmato, un Savonarola qualsiasi destinato a cadere alla prima occasione utile.

In quanto profeta che finisce per essere innamorato più delle sue idee che dei fatti, si potrebbe perdonare a Marino anche il modo con cui si sta riscoprendo “amico dei romani” dopo aver giocato il gioco dell’alieno alla psicologia, alle usanze, perfino all’antropologia della Capitale. Come profeta disarmato e sconfitto, però, esagera quando accetta la solidarietà pelosa dei giornaletti e degli opinion leader che oggi stanno costruendo intorno a lui il character del martire anti-Renzi, del santo sacrificato sull’altare pagano del renzismo dominante, del corpo offerto in olocausto alla sete implacabile del Dio Rottamatore. Questo eccesso di mistica è ingeneroso e non fa giustizia prima di tutto a lui, che seppure mal consigliato da un intuito politico che – soprattutto ultimamente – è stato talmente suicida da far sembrare quella al martirio una vocazione, non ha mai peccato di intelligenza, senso delle cose, capacità di mettersi in gioco. Non è nell’estasi di affrontare il carnefice per testimoniare il Verbo che si gioca il finale dell’esperienza-Marino. In fin dei conti, possiamo dire che “Non è politica, e non è neanche Roma. Si chiama narcisismo”.

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