di Elisabetta Gualmini
Dalla doppietta riformista di Milano e Orvieto è arrivata una spinta forte e chiara per un PD più plurale e inclusivo, e soprattutto maggiormente orientato a un ruolo di governo piuttosto che alla mera opposizione. Dopo tanto tempo di silenzio (pardon, mutismo con le parole di Romano Prodi), finalmente qualcosa si è mosso sia con riferimento al partito che alla coalizione. Non è poco.
E forse proprio per questo la visibilità delle due assise, l’una organizzata da Graziano Delrio e l’altra dal trio Morando-Tonini-Ceccanti, è stata molto alta sui media nazionali, spingendo opinionisti e politici d’antan a puntare insistentemente il ditino sulle differenze tra le due platee come se questo fosse un problema, e non invece un segnale positivo.
Sgomberiamo comunque il campo da un equivoco. Non si è registrato alcun fuoco amico su Elly Schlein, la quale, sia detto chiaramente, ha tutti i diritti di pensarsi candidata premier alle prossime elezioni politiche, non solo per motivi statutari, ma perché si trova a capo del partito più grande della coalizione. Non era la leadership al centro della discussione, ma semmai l’agenda del PD e il formato della coalizione di centrosinistra, con la prospettiva di costruire un’alternativa efficace alla destra meloniana.
Molto belli poi gli interventi incrociati di Pierluigi Castagnetti e di Giorgio Tonini, a testimonianza della volontà di fertilizzazione reciproca delle due iniziative.
Sull’agenda, abbiamo sentito parole finalmente precise e affilate sulla difesa della democrazia (in Ucraina e altrove), in una fase storica in cui la fascinazione per i regimi illiberali e autoritari sta crescendo a dismisura, e sulla necessità di potenziare la difesa europea, senza fossilizzarsi sul dilemma spesa militare si-o-no, ma procedendo con l’esercito unico europeo. Se il Trump Bis negli Stati Uniti potrà beneficiare dopo tanto tempo di un “governo unificato” e dunque di un sostegno totale alle sue politiche più radicalizzate, e se i nuovi oligarchi americani (Musk in primis) si sono velocemente riallineati alla nuova presidenza senza esitare a sdoganare le forze ipernazionaliste di estrema destra (come AFD in Germania), l’Unione europea non può più aspettare, senza arroccarsi in difesa ma prendendo di petto questioni come sicurezza, difesa e politica estera comune. Certo l’aspirazione alla pace, giustamente sottolineata dalla Comunità di Sant’Egidio a Milano, rimane un valore fondativo della cultura progressista, ma si sono sentiti toni finalmente più pragmatici e realistici.
Si è poi discusso di politica industriale e di economia reale dopo che il crollo della produzione non accenna ad arrestarsi nel nostro paese. Da ben 719 giorni, ha ricordato Romano Prodi. It’s the economy stupid!, dovremmo ribadire. La deindustrializzazione e i luoghi sempre più perduti presenti anche in Italia moltiplicano le paure e la sfiducia dei cittadini, sentimenti che i partiti tradizionali faticano a incanalare. Spingendo l’acceleratore su quel “populismo patrimoniale”, brillantemente descritto dal politologo francese Dominique Reynié, dettato dai cambiamenti negli stili di vita, che trova risposta più a destra che a sinistra. Sentimenti di insicurezza a cui occorre rispondere senza paura, appropriandosi anche di parole e messaggi troppo spesso appannaggio della destra. Su questo ha insistito Paolo Gentiloni a Orvieto, parlando di sicurezza come una delle priorità di una forza politica progressista come il PD.
Anche il formato della coalizione di centrosinistra ha ottenuto spazio nelle due assemblee. Molto bene Ernesto Maria Ruffini quando insiste sull’apertura alla partecipazione di cittadini astensionisti e rassegnati, parlando del “cosa” e del “come” della politica e non del “chi”. Il cittadino deve tornare “arbitro” delle decisioni politiche, deve poter partecipare senza deleghe in bianco ai partiti, come direbbe un altro cattolico che sarebbe sicuramente stato seduto in prima fila a Milano, Roberto Ruffilli. Se suona poco credibile la maggioranza Ursula auspicata da Ruffini, con Forza Italia che dovrebbe sganciarsi dall’approdo meloniano in un assetto robustamente bipolare come quello italiano, è trapelata tra i detti e i non detti la necessità di agevolare la formazione di un’aggregazione moderata e riformista (federando le esperienze già in campo) che stia stabilmente nel recinto del centrosinistra in una fase in cui la Segretaria nazionale, legittimamente, ha puntato su messaggi più identitari e radicali.
Ancora meglio che sia emersa, più chiaramente a Orvieto, l’esigenza del dialogo e del compromesso con gli avversari. Qui sì che risuona l’insegnamento di Sassoli (o di Aldo Moro e De Gasperi andando indietro); la politica come processo e non come stato, come incontro tra verità sempre parziali e mai assolute. Sul premierato, l’autonomia, la separazione delle carriere, sino al job act perché mai una guerra di religione tra maggioranza e opposizione? Insomma, tante riflessioni utili e necessarie dall’asse Milano-Orvieto con un trait-d’-union molto chiaro; la precisa volontà di rafforzare il PD e di recuperarne quel tratto, inclusivo, aperto e bisognerebbe aggiungere maggioritario, delle origini.
Professore ordinario di Scienza Politica all’Università di Bologna. È stata presidente dell’Istituto Carlo Cattaneo, Visiting Professor in numerose università straniere, ha scritto una trentina di saggi e una decina di libri sul welfare e la pubblica amministrazione. Attualmente è membro del Parlamento Europeo, eletta nelle fila del Pd, e, in quanto tale, componente del gruppo dei Socialisti e Democratici.