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Nel Pd mancano sedi di elaborazione collettiva

Redazione domenica 2 Febbraio 2025
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di Antonio Floridia

 

Cari amici di LibertàEguale,

in questo intervento, da osservatore esterno, vorrei proporre alcune riflessioni sul recente convegno di Orvieto di Liberta Eguale. Ma vorrei prima partire dal ricordo di un compagno e amico che era molto legato alla vostra associazione, Giulio Quercini, che ci ha lasciato poco più di un anno fa e che recentemente è stato ricordato da Claudio Petruccioli nella sede del Consiglio Regionale della Toscana. Ero molto legato a Giulio, sin dal 1978, quando facevo parte della redazione del mensile pubblicato dal Comitato regionale toscano del Pci, “Politica e Società”, di cui Quercini era direttore, dopo che era stato eletto segretario regionale del partito. Gli incontri della redazione e il confronto con Giulio sono stato per me, ventenne, una straordinaria scuola di politica e, soprattutto, di metodo nella discussione. Nel corso degli anni la frequentazione si è fatta inevitabilmente più saltuaria e anche le posizioni politiche sono state divergenti; ma in tutte le occasioni di incontro, anche recenti, non è mai mancato quello spirito di confronto che era un tratto distintivo di Quercini.

Proprio questo punto – il metodo della discussione – mi permette di entrare nel merito di alcune passaggi del dibattito di Orvieto. Claudio Petruccioli, nel suo intervento, si è domandato: si può essere soddisfatti dello stato della democrazia interna nel PD? La sua risposta è stata molto netta: no, non si può. Nel PD, certo, la leadership è “contendibile”, ma per il resto manca ogni forma e canale di discussione collettiva e di costruzione di decisioni condivise. Un organismo come la Direzione, ad esempio, con oltre 200 membri, non è un organo propriamente deliberativo.

Condivido pienamente questi giudizi. Naturalmente, questo stato del partito non credo proprio, e nessuno lo ha fatto ad Orvieto, possa essere imputato all’attuale segretaria: è una storia lunga, che affonda le proprie radici nell’impianto originario del PD e nelle idee che lo ispirarono. Ma se appare utile questo sguardo retrospettivo, e sarebbe necessaria anche una qualche riflessione sulle ragioni di fondo che hanno portato il Pd a perdere sei milioni di voti tra il 2013 e il 2022 (un dato su cui si sorvola spesso con una certa noncuranza) , oggi il tema urgente è un altro: il PD è quello che è, e da questo bisogna partire.

Credo che si possa riassumere la questione in una formula: nel Pd occorre ripristinare (o, per meglio dire, instaurare per la prima volta) un efficace circuito di connessione tra la partecipazione, la discussione e la decisione. E il punto è che, nel Pd, così com’è, mancano totalmente le sedi e i canali di un’elaborazione politica collettiva, mancano le sedi di confronto intellettuale e, soprattutto, mancano le procedure democratiche che permettano di tradurre un salutare pluralismo politico-culturale in una coerente, e non reticente, visione programmatica. Abbiamo un partito in cui si produce insieme afasia e cacofonia: ovvero, da un lato, il silenzio o l’ambiguità su molti temi su cui, palesemente, le opinioni nel partito divergono; dall’altro lato, proliferano le più disparate opinioni, domina un pluralismo vissuto come una mera convivenza tra gruppi e visioni anche completamente divergenti. E nel mezzo, latita una robusta elaborazione intellettuale – che costruisca anche le singole proposte di policy attraverso il confronto e la valorizzazione delle competenze e delle esperienze diffuse; e subentra invece una normale routine, una governance del partito affidata agli instabili equilibri tra le filiere di potere. Le correnti (e le sub-correnti), in tal modo, sono aggregazioni finalizzate solo al controllo del partito e delle candidature, non l’espressione di un reale pluralismo politico e culturale.

Sono benvenute, quindi, occasioni come quella di Orvieto, che si propongono di offrire idee e analisi: il problema è quello dei modi con cui tali idee e analisi, al pari di altre, possano davvero concorrere alla definizione del profilo ideale e politico del partito ed entrare pienamente in un processo di decision-making.

E qui entra in gioco il tema della riforma del partito: le radici di questa condizione radicalmente insufficiente, e del “deficit” di cultura di governo (che non vuol dire, va aggiunto, a mio parere, una politica “moderata”), sono da ricercare nella costituzione formale e nella costituzione materiale del Pd.  È su questo che bisogna intervenire, ed è su questo che associazioni come LibertàEguale, o altri soggetti interni al partito, possono far leva: richiedere che si apra una fase di ripensamento del modello di partito, attraverso una vera Conferenza di organizzazione. Che sia fatta come si deve: un documento di base, da discutere, emendare e votare, che contenga le indicazioni anche sulla riforma dello Statuto. E votata da una platea di delegati in un momento conclusivo nazionale.

Nel merito delle soluzioni, poi, le opinioni possono essere diverse, ovviamente; la mia è che nel Pd bisogna abbandonare il modello plebiscitario oggi vigente, con l’elezione diretta del segretario, da parte di un corpo elettorale indefinito, e la conseguente composizione, “a strascico”, dei membri degli organismi dirigenti, mediante liste collegate ai candidati segretari. É un modello da archiviare e da sostituire con un vero un modello di democrazia rappresentativa; e quindi, in primo luogo, eleggendo organismi dirigenti, su base proporzionale, corrispondenti alle diverse piattaforme o posizioni che si sono confrontate nel partito.

Il Pd non ha mai fatto dei veri “congressi” sulla base di documenti politici, da soppesare parola per parola, da discutere, emendare e votare; né ha mai utilizzato uno strumento, pure previsto dallo Statuto, e chiaramente ispirato dall’esperienza del Labour Party, quello della Conferenza programmatica annuale (precisando che, nel Labour, la platea nazionale conclusiva è composta da delegati eletti nelle unità di base, e pienamente legittimati ad assumere decisioni sulla linea del partito). Il risultato del modello che il PD ha praticato finora ha avuto un solo risultato: quello di eleggere segretari sulla carta pienamente legittimati dal voto delle primarie, ma di fatto molto vulnerabili; segretari su cui “si scarica” l’onere di una mediazione che in molti casi è impossibile, proprio perché non è preceduta da un confronto politico preliminare, propriamente “deliberativo” (intendendo richiamare, con questo aggettivo, un preciso modello proposto dalla teoria democratica contemporanea).

Le conseguenze di questo stato delle cose si possono cogliere in tanti casi: si potrebbero citare a lungo settori e aspetti della proposta politica programmatica del partito che appaiono indefiniti e irrisolti. Vorrei fare un solo esempio, quello delle politiche istituzionali. Perché il Pd non sembra in grado di esprimere una precisa proposta sulla riforma elettorale? Perché, evidentemente, ci sono nel partito opinioni diverse: più che legittimo e comprensibile, ma dove e come si è discusso e si può discutere della faccenda? Il grande scienziato politico americano, Robert Dahl, in un suo classico testo, La democrazia e i suoi critici, introdusse un concetto che fa al caso nostro, quello delle policy èlites (cosa diversa, si badi, dalle “normali” èlites “politiche”): le policy èlites sono costituite da tutti quei soggetti che, su una materia, hanno voce in capitolo nella concreta definizione delle scelte. Queste èlites formano un policy network: la rete di quelli che “contano” su un dato argomento. Ebbene, nel Pd, fino ad oggi, questa rete è stata quasi sempre asfittica, chiusa, incapace di valorizzare un vasto mondo di esperienze e competenze non solo “esterne” ma anche “interne” al partito. Mancano i luoghi e e forme attraverso cui costruire una discussione collettiva e offrire poi agli organismi dirigenti solide basi per una decisione.

Ed è peraltro solo attraverso questa elaborazione collettiva che un patrimonio di idee può entrare nella cultura diffusa del partito, diventare “senso comune”. Si può fare un altro esempio: le politiche sull’immigrazione. Credo che lo sappiano in pochi, ma è stato elaborato un pregevole progetto di legge, seguito da Delrio e Pastorino, che affronta organicamente il problema: ed è stato costruito ascoltando i pareri e i consigli di un ampio mondo associativo che si occupa del tema. Bene: in questo caso, si potrebbe dire, il policy network è stato più inclusivo, non si è limitato alle discussioni nei gruppi parlamentari o in una cerchia ristretta. Il problema serio è che questa elaborazione non riesce a diventare un patrimonio condiviso, se persino seguendo gli incontri di Orvieto e Milano è capitato di sentire lamentare l’assenza di un’adeguata proposta politica del partito in materia di immigrazione. Perché accade questo? Qui entrano in gioco anche le condizioni organizzative del partito e la sua ordinaria gestione: ma se ne dovrà parlare in altre occasioni.

Qui vorrei concludere su un altro tema cruciale: come governare il pluralismo culturale del Pd. Un partito che è nato, programmaticamente, per unire culture politiche diverse, può “reggere”, essere tenuto insieme, solo se pratica le virtù della discussione collettiva, e se queste diverse culture politiche si mettono alla prova nella comune costruzione di un progetto ideale e politico. Riprendendo le categorie di un grande filosofo politico, John Rawls, caro a molti, e credo in particolare a Claudia Mancina, possiamo chiederci: il Pd si può limitare ad un mero modus vivendi, ossia ad una convivenza regolata solo da motivazioni strumentali, tra soggetti di fatto reciprocamente indifferenti e impermeabili? O si può costruire qualcosa che richiami ciò che Rawls definisce come overlapping consensus, un “consenso per intersezione”, ossia la costruzione di una base comune a cui ciascuno può concorrere, a partire dalla sua storia e dalla sua tradizione? Se si sceglie la seconda opzione, bisogna essere conseguenti: devono cambiare radicalmente le forme e le procedure con cui il partito discute, partecipa e decide. E il vecchio modello con cui fu concepito il PD, nel 2008, giusto o sbagliato che fosse allora, deve essere archiviato.

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