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Non serve il partito di centro, ma la vocazione maggioritaria

Umberto Minopoli venerdì 14 Giugno 2019
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di Umberto Minopoli

 

Il Pd alle europee è rimasto al palo. Ha prosciugato i suoi piccoli vicini minori. Ma senza crescere. Di qui la proposta Calenda: fare, d’accordo col Pd, una “grande” forza, fuori dal Pd, che raccolga liberali e moderati alleata del Pd.

Osservo: se Calenda pensa questo perchè non lo fa? Qual’è l’ostacolo? Un assenso preventivo di Zingaretti? Non ci sarà. Non può esserci. Nessun leader di partito può decretare di fondarne un altro (funzionava solo in Polonia ai miei tempi).

Ma poi: serve davvero? Mi chiedo: perché non dovrebbe funzionare l’idea opposta della “vocazione maggioritaria”? Cioè di un Pd che possa crescere elettoralmente e sia votato anche da liberali e moderati? Nel 2014 funzionò e funzionò in fondo, anche nel Si del 2016. E, sul versante opposto, Salvini ha mostrato che un partito tradizionale può espandersi, pressoché, senza steccati o limiti. Insomma, ci sono precedenti.

Forse più che in (ennesimi) contenitori il problema elettorale di ogni partito è in cose molto profane, tradizionali e terra terra: leadership, visione, inclusività, messaggi socialmente maggioritari, riforme (possibilmente) fattibili. E tutti i partiti per prendere voti devono essere in grado di attrarre i moderati. Il Pd ci riuscì nel 2014. Perché non riprovarci? Non sarebbe più utile che, con una iniziativa interna, i riformisti puntassero a ridare al Pd questi caratteri piuttosto che fondare nuovi partiti? A che serve una costola del Pd per portare al centrosinistra i voti di centro?

Questo partito di centro (nel centrosinistra) c’è: è il Pd. Se non raccoglie abbastanza voti moderati e liberali è un problema di linea politica e di immagine. Non c’è un decreto divino che lo proibisca.

E del resto vale l’opposto: perché +Europa, partito di centro del centrosinistra, non si è affermata visto che, come si dice, c’è questo bisogno di contenitori di “centro nel centrosinistra”? Perché, forse, non c’è quel bisogno. Perché, forse, quello
spazio è più realistico immaginare che possa coprirlo il Pd con una nuova politica. Analoga a quella del 2014.

Più che, come si dice, ai moderati o ai liberali il Pd dovrebbe tornare a parlare alla Nazione: avere un programma di riforme e di priorità sulla crescita. Le riforme stanno scomparendo dall’agenda italiana.

Salvini ha una forza enorme: rischia di passare il messaggio che l’unica riforma, suggestiva e popolare sia “ridurre le tasse”. Che Salvini non fa e non farà perché la loro politica economica di decrescita, deficit e debito lo impedirà. Ma intanto lui parla di una riforma.

Il Pd ha espunto dal suo vocabolario la parola riforme. Anche quelle istituzionali. In soli tre anni dal referendum del 2016, abbiamo avuto le prove clamorose del disastro di quella bocciatura, su ogni punto di quel quesito referendario (legge elettorale, governabilità, stabilità, federalismo, regionalismo, ecc.) ma di riforme non si parla più.

Insomma la domanda per il Pd non è se fare la sinistra o il centro (sesso degli angeli in una società complessa): è se riesce a rilanciarsi come “partito della Nazione”. E delle riforme.

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