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Pietro Ichino, contro la sinistra conservatrice

Enrico Morando martedì 4 Dicembre 2018
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di Enrico Morando

 

Intervento pronunciato in occasione della presentazione del libro di Pietro Ichino La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento (editrice Giunti), organizzata da Libertà Eguale a Roma lo scorso 13 novembre.

 

Nel libro la storia del rapporto fra le due sinistre è il filo conduttore fondamentale, è la battaglia di tutti questi anni, è la battaglia di Ichino. Contro la sinistra conservatrice, contro la sinistra che coltiva ancora una forma di antagonismo di sistema.

 

Una affinità politico-culturale

Anche a me il libro è piaciuto moltissimo. Anche perché ci ho ritrovato delle cose che dimostrano che poi certe affinità di tipo politico-culturale non nascono dal nulla. Ci ho ritrovato persino delle esperienze molto personali: per esempio a un certo punto Ichino racconta che la sua mamma era preoccupata perché tra i 5 e gli 11 anni non cresceva, e aveva una sorella maggiore che lo sovrastava sia per grandezza, sia per forza fisica; ecco, anch’io ho avuto un’esperienza identica. Lui se la ricorda come anche io me la ricordo, come un problema che per i miei era stato serissimo; che poi, come si vede, in entrambi i casi si è risolto per il meglio. Ci ho ritrovato anche il senso di libertà della effettiva proprietà e disponibilità senza condizionamenti di una bicicletta: io me la ricordo come una sensazione straordinaria; come… il socialismo. Nel libro lui racconta la stessa sensazione.

Ho trovato anche altre coincidenze divertenti: a un certo punto lui dice che durante il servizio militare promosse una iniziativa di agitazione tra i suoi commilitoni, al Centro Addestramento Reclute, per la qualità della mensa. Lui era a quello di Albenga, poi alla Scuola di Trasmissioni di Chiavari; io cominciai la mia esperienza militare facendo una agitazione sulla qualità del rancio alla Brigata Sassari, a Trieste; e il casino in quella durò mesi. Insomma ho ritrovato queste esperienze personali del tutto simili, forse perché abbiamo la stessa età e allora respiravamo la stessa aria, incontravamo gli stessi problemi.

 

Il compagno Varisco

Però, venendo alle questioni di carattere politico, vorrei dire una cosa che ha a che fare non solo con gli argomenti, ma anche con la condivisione di un atteggiamento di tipo sentimentale. A un certo punto, a pagina 275 (io ho letto il libro nella edizione elettronica, spero che il numero delle pagine corrisponda) si sta parlando della svolta dell’EUR della Cgil di Lama; Ichino sta partecipando all’assemblea della Tonolli di Paderno Dugnano e sta parlando il compagno Varisco. Ora, io non conosco il compagno Varisco, ma il tipo è perfetto, per chi ha partecipato a quelle assemblee, ha vissuto quel periodo, il compagno Varisco è un topos, non è una persona particolare. E cosa fa il compagno Varisco? Mentre parla della svolta dell’EUR tira fuori una dispensa di Ichino dove si spiega la differenza di atteggiamento – vi prego di notare: in una dispensa sindacale – la differenza di atteggiamento, dicevo, che il movimento sindacale deve assumere se deve fare un contratto con un monopolista o con un’impresa che agisce in condizione di concorrenza perfetta o quasi perfetta; il che, ammetterete, come argomento per il compagno Varisco operaio della Tonolli è un argomento, diciamo, abbastanza… importante; ma la dispensa era stata fondamentale perché gli aveva consentito di impossessarsi della cosa; e conclude il suo intervento dicendo: “per questa ragione, noi, questa svolta dell’EUR che tutti descrivono come una novità fondamentale, noi l’abbiamo fatta già da qualche anno, grazie alle indicazioni del compagno Ichino. Ecco, questa è la soddisfazione del riformista anticipatore. Non c’è niente da fare. Quello che hanno massacrato per tutta la vita dicendogli che questo non si poteva fare, bloccandolo su tutto, eccetera, ha adottato il suggerimento metodologico di Bruno Trentin, di perseverare, di non mollare.

A pagina 317 c’è una indicazione metodologica data da Bruno Trentin a Pietro nel corso di un colloquio, circa la perseveranza di chi ha in testa una iniziativa di cambiamento di atteggiamenti diffusi, che non deve abbandonare la scena immediatamente alle prime difficoltà. Ecco, in quell’episodio c’è questo compagno Varisco che è l’emblema del fatto che se si fa così – e Ichino aveva fatto proprio così con il suo corso per i delegati e i sindacalisti – se si fa così, non è vero che non incidi; magari passa un po’ di tempo, ma poi ce la fai.

Anche se, certo, qualche volta ti viene la tentazione di dire: “Ma è possibile che ogni volta per arrivare a fare la cosa giusta ci vogliono dieci o addirittura venti anni?” Perché purtroppo è andata quasi sempre così nella sinistra italiana. Mi è capitato di scrivere un articolo intitolato “Se dieci anni vi sembran pochi” proprio per dire che tutte le volte, sulle questioni fondamentali, alla posizione giusta, quella efficace che ci consente di progredire, arriviamo con troppo ritardo. Però, ecco, lì in quell’episodio c’è il riformista anticipatore che non dice la banalità, “… io l’avevo detto”; è soddisfatto non perché può dire “io l’avevo detto”, ma perché c’è qualcuno che ha compreso le ragioni della sua iniziativa anticipatrice, le ha fatte proprie, e ora dice: “Quella che mi presentate come una novità non è una novità, perché noi ci eravamo arrivati già da un po’”.

Ecco, questo è l’atteggiamento psicologico giusto del riformista anticipatore, che è soddisfatto quando le sue idee attecchiscono, danno frutti. Perché se invece l’avevi detto ma non avevi convinto nessuno, vuol dire come minimo che l’avevi detto male, visto che non ti aveva capito proprio nessuno.

 

Redistribuzione e sviluppo: le due linee

Ecco, invece, venendo alla questione delle due linee, si dice che c’erano i rivoluzionari e i riformisti, certo; i comunisti e i socialdemocratici, certo; ma le due vere linee, quelle che incidono – certo, si iscrivono in queste grandi discriminanti della storia del movimento operaio, ma – poi, ormai da molto tempo hanno una versione che non ha a che fare tanto con questa dicotomia, ma con una cosa – se volete – molto più semplice. Che spiega perché è ancora così difficile questo confronto, anche quando quella dicotomia sembra essere cosa passata. Ci sono quelli che – lo dico con le parole che userebbe il mio amico compagno qui presente Piero Borghini – quelli che “lo sviluppo delle forze produttive è la prima priorità e all’interno dello sviluppo delle forze produttive si colloca l’interesse dei più deboli, dei lavoratori in generale. Cioè devo costruire politiche redistributive in un contesto nel quale che cosa succede sul terreno del progresso della produzione è un problema mio. E questo è un filone della sinistra: il nostro.

C’è poi un altro filone che dice: “Sentite, messa così è troppo difficile; dobbiamo fare troppi mestieri in uno. Il problema dello sviluppo delle forze produttive ce l’hanno i padroni, ce l’ha il sistema nel suo complesso; all’interno di questo sistema, noi sinistra – socialdemocratica, anche, non c’è bisogno che si parli soltanto della sinistra radicale, estrema, antagonistica – noi sinistra dobbiamo svolgere una funzione redistributiva; in fondo alla fine noi siamo qua per tosare la pecora del capitalismo. È vero che se la tosiamo troppo la pecora muore e non ci resta più in mano niente; ma tendenzialmente la pecora non muore, quindi il nostro mestiere è questo”.

 

Il classismo etico e antagonista

Nel libro, questa dialettica è riproposta nelle sue due versioni fondamentali: da una parte c’è sempre Ichino – la parte buona, dal mio punto di vista; perché Pietro è il migliore di tutti noi, sia chiaro, dovrebbe essersi capito –, dall’altra ci sono due figure, molto rappresentative. Una è quella arcinota, già richiamata, don Lorenzo Milani; l’altra persona che sostiene una posizione sostanzialmente analoga anche se con argomenti diversi è Emilio Pugno, il capo-operaio comunista della Fiat. Della posizione di don Milani qui si è già detto; voglio leggervi soltanto una frase impressionante; ve la voglio leggere – la trovate alla pagina 144 – perché è l’espressione di un classismo etico proprio duro: “Che mi importa se la Pirelli va a rotoli per eccessive assunzioni”, io il licenziamento non lo posso accettare. Intendiamoci, non sta dicendo delle cose assurde: sta dicendo che al figlio del licenziato non sa che cosa potrà andare a dire. Ma pone la questione in termini di un classismo etico estremo, che è in sé catastrofico, ma di fronte al quale non ci sono possibili contro-argomenti.

Con Emilio Pugno, invece c’è una lunga conversazione, di quelle che connotano la parte politica del libro, quella sulla cultura della sinistra in Italia (pag. 305,306, 307, 308). È una lunga discussione, che si svolge alla Camera dei Deputati, perché anche Emilio Pugno era diventato parlamentare; era ovviamente molto più anziano di Pietro. Sostanzialmente Pugno espone il nucleo fondamentale dell’antagonismo classista della sinistra; perché avendogli Pietro fatto la domanda “ma allora stai dicendo che non dobbiamo occuparci del benessere degli operai nelle crisi aziendali?”, gli dice: “Sto dicendo che non è compito nostro proporre i modi per far funzionare bene il mercato del lavoro in una economia capitalistica; ci pensino i padroni, visto che sono loro che hanno interesse a ristrutturare e a licenziare”. È una frase sintesi di quell’altra linea, secondo me assolutamente perfetta, emblematica di un atteggiamento diffusissimo.

Io sono piemontese e con questo tipo di atteggiamento, prevalente soprattutto nella sinistra a Torino. Fin da ragazzino ho incominciato a litigare con questa posizione qua; e poi ci ho fatto i conti per una vita (per questo ne sono venuto fuori male). È una posizione che, in termini di presenza nel mondo del lavoro, di organizzazione, di puntualità nel modo di rappresentare i lavoratori, è assolutamente formidabile. Cambiato il moltissimo che c’è da cambiare in quella posizione, è chiaro che ritrovare quella presenza e quella puntualità è un pezzo del problema che dobbiamo risolvere; perché in questo momento noi sinistra non siamo – sotto il profilo organizzativo, della capacità di relazioni – capaci di rappresentare le contraddizioni sociali come lo era la sinistra impersonata da Emilio Pugno. Ed è un problema, se non abbiamo questa capacità di rappresentanza. Le conclusioni che Emilio Pugno traeva da quella presenza nel mondo del lavoro erano sbagliate e da me mai condivise; ma il fatto che là dentro bisogna stare per sviluppare la nostra iniziativa, quella è la cosa che bisogna recuperare. Se non la recuperiamo, abbiamo un bel predicare il riformismo.

 

Per una sinistra di governo

Io sono d’accordo quando si dice che “Corbyn è un perdente di successo”. Voglio dire che ha recuperato capacità di rappresentanza; ma poiché rinuncia in modo esplicito a collocarsi sul terreno del governo, finisce coll’attribuirsi soltanto il compito di una rappresentanza dei perdenti della globalizzazione – la versione attuale della parte più debole della popolazione nei Paesi Occidentali – che restano però perdenti.

Ecco, questa battaglia contro l’altra sinistra – che è una componente fondamentale e, secondo il mio parere, storicamente ineliminabile nella sinistra dei paesi occidentali – è una battaglia che percorre tutta l’esperienza politica di Pietro. E fino alle ultime iniziative, alle ultime battaglie. Non è che nel libro ci sia una eccessiva enfasi su questo punto, ma il tema è comunque centrale. Tenete conto che Ichino era un predestinato a questo; perché aveva fatto la tesi di laurea sulla contrattazione collettiva aziendale e sulla partecipazione dei lavoratori nelle aziende nei primi anni ’70; per cui, anche quando non era ancora il Pietro Ichino che conosciamo, aveva già in testa più o meno quello.

 

Fiat, la vicenda delle due sinistre

La vicenda della Fiat di Pomigliano è l’emblema di questa stessa contrapposizione. Forse sarebbe tempo che lo si dicesse chiaramente: il conflitto politico durissimo tra la Fim-Cisl di Marco Bentivogli e la Fiom-Cgil di Maurizio Landini è la versione contemporanea di queste due idee. Sarebbe tempo che noi del Pd la finissimo di dire “il sindacato”; perché i sindacati sono due. È la Fim di Bentivogli che si fa carico della sopravvivenza dell’impresa Fiat nel contesto attuale; mentre, se avesse prevalso la Fiom di Landini, la Fiat non ci sarebbe più. La Fiom di Landini è la traduzione contemporanea della sinistra di Emilio Pugno: questo è molto chiaro.

Dopodiché, con il salvataggio e il rilancio della Fiat i problemi sono finiti? No certo. Ma lì la sinistra ha fatto segnare un punto importante. Lì, per intenderci, è la sinistra “alla Ichino” che ha prevalso. Ed è la stessa che ha poi avuto alcuni altri successi importanti nella fase immediatamente successiva, quella dell’esperienza di Governo.

 

Dalla minoranza al Jobs Act

Io mi ricordo quando, all’assemblea nazionale del Pd del 2010 a Genova, presentammo un ordine del giorno sulla riforma del mercato del lavoro in larga parte scritto da Ichino. L’establishment del Pd, composto anche da tanti che poi negli anni successivi si sono allineati sulle cose che Ichino sostiene, non voleva neppure metterla ai voti; alla fine, con molta difficoltà, accettò di metterla ai voti come per una gentile concessione. Poi prendemmo, in realtà, molti più voti di quanti non ne fossero attesi; ma eravamo decisamente in minoranza, eravamo a malapena tollerati.

Solo per dire che la vicenda non è solo quella che Ichino racconta nel libro, che negli anni ’70 la casa editrice della Cgil ha rifiutato di pubblicargli il libro o che il Pci negli anni ’80 non ha digerito la sua proposta di superamento del monopolio statale del collocamento; anche molto più di recente le stesse contrapposizioni si sono riproposte.

Nella fase più recente dei governi di centrosinistra le posizioni “alla Ichino” hanno incominciato a prevalere. L’emanazione del Jobs Act costituisce, per questo aspetto un successo importante. E però, anche qui, a forza di conservatorismo, abbiamo finito col fare quello che andava fatto sull’articolo 18 con almeno dieci anni di ritardo. Se lo avessimo fatto per tempo, avremmo avuto, la forza, le condizioni politiche e la possibilità concreta di collegare molto meglio la nuova disciplina dei rapporti di lavoro con l’indispensabile mutamento profondo della struttura dell’amministrazione, nel campo dei servizi del lavoro.

 

Manca la seconda gamba della riforma

È evidente – e Pietro lo ripete ogni giorno – che questa riforma era fatta per camminare su due gambe, la nuova disciplina dei rapporti di lavoro e il nuovo assetto dei servizi per il mercato del lavoro, con il diritto soggettivo di ciascun disoccupato al contratto di ricollocazione: il fatto che questa parte della riforma sia rimasta sulla Gazzetta Ufficiale senza neppure incominciare a essere implementata effettivamente ha azzoppato la riforma. Oggi noi paghiamo, in termini di consenso, i limiti di questa riforma dimezzata.

Ma non abbiamo peccato di un eccesso di riformismo: al contrario, abbiamo peccato di un riformismo ancora troppo debole, soprattutto sul piano dell’implementazione concreta dei nuovi strumenti.

La mia opinione, comunque, è che da qui si deve ripartire per andare avanti: da una iniziativa forte per l’implementazione della parte della riforma sui servizi nel mercato del lavoro. Ma c’è, ancora una volta, una parte della sinistra che invece propone di tornare indietro, smontando anche il pezzo di riforma che è stato fatto.

 

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