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Pnrr, un’occasione straordinaria. Ma serve una paternità politica

Giorgio Tonini giovedì 6 Maggio 2021
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di Giorgio Tonini

Il PNRR, Piano nazionale di ripresa e resilienza, “Recovery” per gli amici, è per il nostro paese un’occasione straordinaria, forse irripetibile, per dare gambe più solide e meno squilibrate al suo modello di sviluppo. Ma ha un tallone d’Achille, o per meglio dire un fianco esposto: è politicamente orfano. Di lui, di questo fanciullo sul quale poggiano tutte le speranze di futuro dell’Italia, si sono fin qui occupate due istituzioni, il Quirinale e la Commissione europea, che gli hanno dato un “tutor” di prim’ordine, Mario Draghi, e una serie di regole da osservare, la principale delle quali è che per incassare i tanti soldi promessi, bisogna dimostrare di meritarli, con un programma di riforme adeguato nella sua ambizione e verificato nella sua concreta attuazione. Dunque, i soldi ci sono, le regole di comportamento pure. Ma il Recovery non ha ancora una famiglia politica che voglia e sia in grado di adottarlo. Ed è difficile, molto difficile, per qualunque bambino, e a maggior ragione per un bambino dal quale ci si aspetta così tanto, crescere bene senza una famiglia, che lo protegga, lo curi, lo sostenga, lo educhi.

Il Recovery è un’occasione straordinaria e irripetibile, in particolare per l’Italia, proprio perché racchiude in sé una sintesi della quale il nostro paese ha sempre avuto bisogno ed ha sempre sofferto la mancanza, strutturale e non solo occasionale o congiunturale. Mi riferisco alla sintesi tra politiche monetarie ed economiche espansive, a favore della crescita del prodotto e del reddito, e riforme strutturali, volte a rimuovere gli squilibri, economici, sociali e ambientali, nell’allocazione delle risorse, materiali e immateriali.
Per una lunga stagione (1948-1992, quasi mezzo secolo), la stagione che per comodità definiamo Prima Repubblica, l’Italia si è data politiche monetarie ed economiche anche molto, talvolta troppo, espansive. Ma non ha conosciuto se non brevi e magari intense, ma effimere stagioni di riforme, per lo più coincidenti con le fasi iniziali dei diversi cicli politici: il centrismo degasperiano, il primo centrosinistra, la solidarietà nazionale, il craxismo. La crescita senza riforme, o al più con riforme parziali, rapsodiche e spesso tardive, è stata pagata dal paese, prima con la febbre gialla dell’inflazione a due cifre, poi con il cancro del debito pubblico.

D’altra parte, la stagione successiva (quasi trent’anni, 1992-2018) è stata contrassegnata da numerosi tentativi di mettere in campo riforme, anche ambiziose, ma rese non meno parziali, rapsodiche e tardive, da un contesto di politiche monetarie ed economiche tendenzialmente restrittive, talvolta molto restrittive, a causa dell’alto rischio di insostenibilità del debito. Le riforme hanno anzi finito per assumere esse stesse la funzione di moltiplicatore delle politiche restrittive, con effetti devastanti in termini di consenso sociale e politico.

Il risultato è che alla fine di questo lungo e accidentato percorso, l’Italia si è ritrovata il paese europeo con la crescita più bassa, il debito pubblico più alto e la persistenza, quando non la recrudescenza, dei suoi tradizionali squilibri strutturali, a cominciare da quello territoriale Nord-Sud, dall’elevato tasso di inoccupazione e sottoccupazione, nonché di povertà e disuguaglianza, dalla bassa produttività totale dei fattori. Non deve sorprendere dunque che, in un contesto come quello appena descritto, gli italiani si siano affidati al populismo, che prometteva il ritorno di una politica economica espansiva, insieme a riforme solo distributive. Così come non ci si può stupire del completo e rapido fallimento di questa pseudo-risposta, travolta dal principio di realtà, insieme al governo Conte1 che ne aveva rappresentato la proiezione istituzionale.

Inquadrato nella prospettiva storico-politica qui appena accennata, il Recovery appare come la quadratura del cerchio. Una missione necessaria, indispensabile, ma almeno apparentemente impossibile. Perché l’Italia dovrebbe riuscire a fare oggi quel che non è riuscita a fare nei tre quarti di secolo di storia della Repubblica? Una risposta a questo dubbio, in effetti c’è: perché è scesa in campo l’Europa. È grazie all’Europa se noi possiamo oggi avvalerci di una nuova “finestra di opportunità”, per fare le riforme in un contesto di politiche monetarie ed economiche espansive e non restrittive. Si può anche aggiungere che l’Europa, insieme alla carota (una carota del valore di più di 200 miliardi di euro), mantiene in mano anche il nodoso bastone che impone la simultaneità di finanziamenti e riforme. Come è giusto che sia: perché quelle politiche espansive sono finanziate in debito e dunque andranno ripagate e potranno essere ripagate solo se, grazie alle riforme, avremo più crescita e più occupazione, più reddito e più prodotto.

L’Europa è finalmente diventata il punto d’appoggio che ci mancava per risollevare l’Italia. Ma lo sforzo per azionare la leva devono comunque farlo gli italiani, non possono farlo per loro gli altri europei. La domanda resta dunque valida. È possibile realizzare un così vasto e ambizioso programma riformatore, sia pure in un contesto reso favorevole dalle politiche espansive europee, senza un partito o una coalizione riformista che ne faccia la bandiera della sua lotta politica, che su quell’ambizioso programma chieda e ottenga un mandato esplicito dalla maggioranza degli elettori? La storia d’Italia ci dice che la risposta non può che essere negativa. Nel dopoguerra l’Italia ha goduto di una prolungata fase di crescita economica, ma non ha potuto dar vita ad un ciclo riformatore paragonabile a quello inaugurato dal governo laburista britannico col primo ministro Clement Attlee. Per molte ragioni, la principale delle quali è stata la divisione dei riformisti nei tanti rivoli che li hanno resi o minoritari nei partiti maggiori o maggioritari in partiti minoritari, in ogni caso subalterni. Così il coraggioso Piano del Lavoro del segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio (1949), fu nei fatti sconfessato dal Pci di Togliatti. In cambio, lo Schema Vanoni (1954) fu annacquato e poi annegato dalla Dc del centrismo post-degasperiano. Sconfitte riformiste messe in evidenza già da Ugo La Malfa nella famosa Nota aggiuntiva del 1962, uno dei documenti programmatici fondativi del primo centrosinistra, programma che non ebbe peraltro, a sua volta, una sorte molto migliore.

La questione del rapporto tra Recovery e democrazia politica italiana non può quindi essere elusa. Del resto, tra otto mesi questo Parlamento dovrà eleggere il successore di Mattarella al Quirinale. E a quel punto inizierà il conto alla rovescia che, poche settimane o al massimo pochi mesi dopo, si concluderà con le elezioni politiche. Non si può che augurarsi che il Recovery, e non le ultime gesta televisive di qualche nano o ballerina, siano al centro del confronto e della decisione. Chi si presenterà agli elettori come padre e madre del Recovery e di un vero ciclo riformatore coerente con esso? Sarà lo stesso Draghi, alla testa di una coalizione riformatrice? O sarà il Pd di Enrico Letta a proporsi come la casa comune dei riformisti, impegnata nell’attuazione del Recovery in Italia e in Europa? O dobbiamo invece prepararci ad altri, nuovi scenari? Ancora non abbiamo le risposte a queste domande. Ma non è troppo presto per cominciare a porsele seriamente.

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