di Alberto Bianchi
Il 267° successore di Pietro della Chiesa cattolica è il cardinale Robert Francis Prevost, che ha assunto il nome di Leone XIV. Per la prima volta uno statunitense. Confesso che auspicavo un Papa europeo. Ma la scelta dei Padri cardinali a favore di Prevost è nondimeno positiva per la Chiesa nel mondo e per il cattolicesimo europeo.
Subito ci sono stati commentatori che hanno scritto e parlato di continuità tra Leone XIV e Francesco. Senza dubbio tra Bergoglio e Prevost ci sono dei fattori di continuità, così come è diffusa tra i cardinali la consapevolezza che debbano essere ricucite non poche parti del tessuto comunitario, istituzionale, dottrinale e di governo che la Chiesa ha visto lacerarsi. Un lavoro immane da far tremare i polsi a chiunque. E come sempre in questi casi – in cui in gioco non ci sono panni materiali lisi dal tempo nella propria resistenza e consistenza, bensì un tessuto ed una trama fatti di uomini e donne, pastori e teologi, comunità e gerarchie, idee e volontà complesse e diverse, sebbene spiritualmente e religiosamente ispirate, mosse, guidate – conta il filo o cordone che si usa per ricucire.
Ed è qua, sul tipo di filo con cui si vuole tentare di ritessere la comunità dei credenti cattolici che – a mio parere – si intravede una discontinuità feconda di Leone XIV rispetto a chi lo ha preceduto. E quel filo ha un solo nome: agostinismo. Nel suo primo discorso dalla loggia centrale della basilica vaticana ai fedeli radunati a San Pietro, Leone XIV ha parlato di pace e di vicinanza ai poveri – temi cari a Francesco, certo. Ma l’architrave dell’una e dell’altra è nel passaggio in cui ha detto: “Io sono un figlio di Sant’Agostino. Sono un agostiniano”. È il cuore della formazione e visione teologica ed ecclesiologica di Prevost. Un altro Pontefice, prima di Leone XIV, è stato un agostiniano per il tramite di San Bonaventura: il suo nome era Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI.
“La pace sia con voi …”, con cui Leone XIV ha salutato i fedeli in Piazza San Pietro è stata subito legata alla “… Resurrezione di Cristo”. Non, dunque, una pace genericamente intesa, ma la pace del e nel Cristo risorto. È un cambio di senso e di linguaggio di notevole portata: il legame della pace alla fede nella resurrezione di Cristo spazza via ogni torsione riduzionistica della pace a valenza moralistica, restituendo ad essa la dimensione dell’impegno storico attivo – e non di una resa degli aggrediti e sofferenti ai facitori del male – e della salvezza per e in Cristo. Il Cristo di Prevost è, insomma, il Cristo mediatore tra Dio e l’umanità di Sant’Agostino, è divino ed umano in modo inscindibile: Cristo non è un maestro morale o un modello sociale, ma il Redentore che riconcilia l’uomo con Dio attraverso la sua morte e resurrezione.
Stesso discorso per il tema della povertà. Con la prospettiva cristologica agostiniana, in cui Leone XIV sembra collocare il proprio magistero papale – limpida e densa in tal senso la sua omelia alla prima messa con i cardinali dopo l’elezione al soglio petrino – egli sembra voler superare le accezioni sociologiche ed economiche della povertà di Francesco, interpretando piuttosto la povertà come una condizione esistenziale e spirituale, un’opportunità per crescere nella fede e nella carità. In altri termini: l’importanza della povertà volontaria e della condivisione e distacco dai beni materiali, per concentrarsi sulla ricerca della verità attraverso lo studio, la preghiera e il servizio agli altri.
Ma attenzione: Prevost, imponendo a se stesso il nome di Leone, ci dice anche che non c’è solo la povertà intesa come una condizione spirituale, un mezzo per avvicinarsi a Dio attraverso l’umiltà e il distacco dai beni materiali. Egli ci ricorda nello stesso tempo che c’è pure una dimensione più sociale della povertà, anzi più propriamente si dovrebbe dire delle condizioni di vita e di lavoro delle moltitudini di uomini e donne dei paesi protagonisti della moderna globalizzazione. Quelle condizioni di vita e di lavoro che portarono Leone XIII, sul finire del XIX secolo, all’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa con l’Enciclica “Rerum novarum” (1891). Anche qui, dunque, un elemento di discontinuità di Leone XIV rispetto a Francesco si intravede. Non hanno senso condanne moralistiche e populistiche all’indirizzo della modernità capitalistica: piuttosto va esaminata ed affrontata per le sfide che pone alla stessa Chiesa cattolica e al suo messaggio evangelico. Come fece, in condizioni certo molto diverse da oggi, la “Rerum novarum”, aprendosi al mondo del lavoro operaio e dell’imprese.
Sessantacinquenne, romano, studi classici, lavora presso Direzione Trenitalia spa, gruppo Fs italiane. Sin da giovane, militante della sinistra: prima nelle fila della Federazione Italiana Giovanile Comunista (FIGC), poi nel PCI (componente migliorista), fino allo scioglimento del partito. Successivamente ha aderito al PDS, poi DS. Attualmente è socio ordinario di Libertà Eguale.