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Quella Riforma all’alba della modernità

Danilo Di Matteo sabato 29 Ottobre 2022
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di Danilo Di Matteo

 

Da persone attente e curiose che vivono ormai da decenni nella tarda modernità non possiamo restare indifferenti rispetto al gesto di quel monaco agostiniano di stampo tardo-medievale – Martin Lutero – che nel 1517, alla vigilia di Ognissanti, affiggeva presso la chiesa del castello di Wittenberg le sue 95 Tesi.

E un bel modo per ricordare e attualizzare quelle vecchie questioni può essere la lettura di una selezione di scritti del pastore valdese, storico e teologo Giorgio Tourn: Il luogo dove Dio ci incontra. La Parola e la fede, a cura di Alberto Corsani, con la Prefazione di Ermanno Genre. Un ponte tra noi e il libro ci è donato, in particolare, dalla Postfazione di Elena Bein Ricco.

Dio ci incontra nella nostra “coscienza”, siamo portati a pensare; nel nostro intimo. Non potrebbe essere diversamente. Del resto, è noto a tutti il rilievo dato dalla cultura protestante all’idea di coscienza. La tua coscienza, la mia, quella di ciascuno. Vi sono scelte, vi sono situazioni, vi sono decisioni che rimandano, inevitabilmente, alla responsabilità del singolo, dell’individuo. Ma – ecco una domanda cruciale – dove si situa l’individuo? Di certo nella storia. Probabilmente non siamo “determinati” dalla storia, tuttavia in essa ci situiamo. Da qui, ci ricorda Elena Bein, il senso del discorso di Tourn sulla memoria. Intesa non solo come ricordo o come rievocazione, bensì come ponte fra noi e ciò di cui siamo eredi, e fra quelle radici e la nostra proiezione nel futuro. Come singoli e come comunità; ad esempio come comunità di fede. “L’atto dell’ereditare – ella scrive – non si riduce all’acquisizione passiva di una rendita; si tratta, invece, di confrontarsi con la testimonianza di chi ci ha preceduto per riproporre in forma rinnovata ciò che ci è stato trasmesso, perché generi nuova storia. È per questo che Tourn non si stanca di ripetere che la memoria storica non ha a che fare esclusivamente con il passato, ma va fatta valere come un ‘riferimento culturale’ da riattualizzare ‘per sapere perché e come vivere oggi’”.

Memoria, memorie, dunque, individuali e collettive. E racconti condivisi. Da qui il nesso, sottolineato ad esempio da Paul Ricoeur, “tra identità e narrazione: senza la rifigurazione in un racconto che componga in una trama ordinata – prosegue la filosofa – il groviglio delle esperienze, l’esistenza si disperderebbe in una molteplicità di vicende prive di coesione”.

Già, il groviglio: viviamo tutti in tale groviglio, ne siamo immersi. Così come, a dispetto di un’idea illusoria e difensiva di identità, siamo tutti meticci. Personalmente, per motivi professionali, ascolto spesso le vicende individuali e familiari: storie di trasferimenti, cambiamenti, spostamenti. “Incroci” di ogni tipo. E che dire della storia delle comunità di fede o delle forze politiche? Piani diversissimi tra loro, certo, ma accomunati dalle continue “contaminazioni”. L’identità, intesa come “purezza”, semplicemente non esiste. In tal senso l’errore dei miti etnocentrici o delle “piccole patrie” e dei “comunitarismi” esasperati non è nelle loro conseguenze, bensì nel loro carattere di bluff e di illusione. Il meticciato è la cifra della vicenda umana.

Meticciato che, per la donna e l’uomo di fede, per il cristiano, ad esempio per il cristiano evangelico, non significa sincretismo o eclettismo, anzi: esige una ricerca ancor più rigorosa, un confronto con i testi biblici, con la Parola (e con i silenzi) di Dio ancor più attento e appassionato.

Rispetto alla domanda che cos’è la storia Tourn, e con lui Bein Ricco, coglie un’altra possibile declinazione della risposta: “essa è ‘il luogo della nostra vocazione, anzi l’unico; non abbiamo vocazione all’infuori della storia e la vocazione è un fare nella storia’”. “La parola vocazione, che ricorre costantemente nel vocabolario protestante, gioca un ruolo centrale sia nella vita individuale sia” in quella comunitaria. “Sotto il profilo soggettivo, sta a indicare il centro intorno al quale si struttura il senso dell’esistenza di ciascuno, ovvero, per esprimerci con [il grande riformatore] Calvino, è ‘quel punto fermo assegnato da Dio’ al credente ‘perché non volteggi e svolazzi sconsideratamente per tutto il corso della sua vita’”, orientando piuttosto “le sue scelte secondo una coerenza nuova, via via che acquista consapevolezza dei compiti che Dio gli indica e si impegna a realizzarli”. A livello sociale, poi, agire “vocazionalmente ha lo scopo”, per dirla di nuovo con Calvino, “di ‘mettere a posto il mondo’ e di dare un ordine alla realtà, che mostra in ogni suo aspetto i segni del peccato, della corruzione e dell’ingiustizia. Se il mondo è privo di armonia, i credenti non possono sottrarsi alla responsabilità di porvi rimedio, impegnandosi nel sociale e nel politico per renderlo più vivibile e più giusto”. E – si tratta di un passaggio dirimente – in “questa prospettiva, la storia diviene l’ambito in cui far interagire il contenuto del messaggio dell’evangelo con le situazioni concrete in cui ci si trova a operare”, nella consapevolezza, però, che “tra i due piani c’è sempre uno scarto incolmabile: la Bibbia non è un codice che possa essere trasposto in un ordinamento storico, e, a sua volta, ogni ordinamento storico, come tutte le realizzazioni umane, non può mai essere assolutizzato né sacralizzato, perché ricade sempre sotto il giudizio dell’evangelo”.

Da qui, tra l’altro, emerge inequivocabilmente l’importanza della laicità.

Insomma, il ricordo dell’azione e del pensiero dei primi riformatori e questo libro, accanto a tanti altri, possono fungere da sprone per tutti i cristiani, in nome della “diversità riconciliata”, per le altre persone di fede e per gli stessi non credenti. Grandi cose possono scaturire dall’apprendimento reciproco.

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