di Piero Giordano
Dietro la promessa di maggiori tutele, quattro quesiti rischiano di generare confusione normativa, rigidità e svantaggi per lavoratori e imprese.
Quando il diritto diventa un campo minato di abrogazioni parziali, norme stratificate e interpretazioni giudiziarie, il rischio di fare danni con buone intenzioni è molto alto.
È il caso dei referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno, dove agli elettori verranno consegnate quattro schede che toccano temi delicati come licenziamenti, contratti a termine, risarcimenti e sicurezza nei subappalti.
Eppure, proprio perché i temi sono importanti, la scelta più consapevole potrebbe essere quella di non ritirare le schede.
Scheda 1 (verde): il reintegro “a metà” che non riporta l’articolo 18
Il primo quesito punta a cancellare il contratto a tutele crescenti del Jobs Act, promettendo il ritorno al reintegro per i lavoratori licenziati ingiustamente. Ma non è un ritorno all’articolo 18: si tornerebbe, semmai, alla legge Fornero del 2012, che già aveva ridotto le reintegrazioni a una minoranza di casi.
Solo i lavoratori assunti dopo il 2015 ne sarebbero interessati. E anche in caso di “vittoria del sì”, il giudice non sarebbe obbligato a reintegrare il lavoratore, se non in rari casi di licenziamenti collettivi illegittimi. In tutti gli altri casi, la sanzione tornerebbe a essere esclusivamente economica, da 12 a 24 mensilità, contro le attuali 6-36. Il rischio? Un’illusione di tutela, che non semplifica e non unifica, ma lascia un sistema frammentato e più rigido.
Scheda 2 (arancione): più risarcimenti, meno lavoro nelle piccole imprese
Qui si propone di eliminare il tetto ai risarcimenti per i licenziamenti illegittimi nelle imprese con meno di 16 dipendenti. Un apparente passo avanti per i lavoratori, che però potrebbe trasformarsi in un boomerang: senza limiti, il rischio economico per una piccola impresa aumenta a dismisura, portando a minore propensione alle assunzioni, più contenziosi e ricorso al lavoro nero.
Una giustizia più “generosa” nei risarcimenti rischia di colpire proprio le realtà più fragili del nostro sistema produttivo. E in un Paese fatto per l’85% da microimprese, non è un dettaglio.
Scheda 3 (grigia): la causale sempre obbligatoria? Più rigidità, meno accessi al lavoro
Il quesito propone di imporre sempre una motivazione per ogni contratto a termine inferiore a 12 mesi, anche dove oggi non è richiesta.
Un’idea che nasce per contrastare la precarietà, ma che non considera le dinamiche reali del mercato del lavoro: molte aziende assumono con contratto a termine per esigenze temporanee, non sempre rigidamente qualificabili.
Con questa norma si alza la soglia burocratica, si rischia di bloccare le assunzioni più rapide e si favorisce un’esplosione del contenzioso legale, dove il giudice sarà chiamato a valutare ogni motivazione.
In definitiva, una barriera in più per l’ingresso nel lavoro, soprattutto per i giovani.
Scheda 4 (viola): corresponsabili sempre, anche senza competenze
L’ultimo quesito elimina l’unica eccezione oggi prevista alla corresponsabilità solidale del committente in caso di infortuni nelle attività in appalto.
Oggi, se un’impresa di calzature appalta dei lavori edili, non è responsabile per incidenti legati a rischi propri dell’edilizia.
Il quesito vuole rendere il committente sempre corresponsabile, anche se non ha le competenze tecniche per valutare i rischi. Una mossa che potrebbe portare a una maggiore attenzione alla sicurezza, ma anche a un irrigidimento del mercato degli appalti, penalizzando chi si rivolge a ditte specializzate e disincentivando investimenti.
Il vero atto contestativo, che fa votare un doppio no ad ogni quesito, è non ritirare queste schede, prendendo la scheda (gialla) e votando sì al referendum sulla cittadinanza.
In ognuna delle fattispecie referendarie, i quesiti non risolvono davvero i problemi strutturali del lavoro in Italia, ma rischiano di complicarli.
Non si tratta di schierarsi per il progresso o contro il cambiamento, ma di riconoscere che non tutto ciò che promette più diritti produce davvero giustizia.
In un’epoca dove ogni scelta ha bisogno di lucidità e visione, non ritirare le schede è un atto politico e consapevole.
È dire: non mi presto a semplificazioni ingannevoli, non accetto soluzioni parziali che rischiano di peggiorare la condizione che dovrebbero tutelare.
È votare dicendo due NO, uno al contenuto dello strumento, e un altro all’inadeguatezza dello strumento referendario in materia di lavoro.
L’astensione, in questo caso, non è disimpegno. È difesa della serietà del diritto. È difesa dell’autonomia del sindacato.
Da cislino ormai attempato, 50 anni fa lottavo contro l’idea che il sindacato dovesse essere la cinghia di trasmissione di un partito, allora la CGIL era cinghia di trasmissione del PCI.
Non avrei mai immaginato di assistere oggi all’inversione dei ruoli: un Partito Democratico che si fa strumento delle istanze politiche, non sindacali, della CGIL.
Credo, da cattolico democratico, che il principio di sussidiarietà sia una delle colonne portanti della democrazia liberale.
Le istituzioni pubbliche devono sostenere, non sostituire, la società civile e i suoi corpi intermedi. Così come questi ultimi non devono sostituirsi al legislatore riportando la lancetta dei diritti indietro di decenni.
Ed è proprio questo che avviene quando si tenta di usare i referendum per cancellare norme di legge, dimenticando che lo strumento principe del sindacato è la contrattazione collettiva, contrattazione per conquistare norme di diritto privato capaci di fare avanzare e adeguare un mondo del lavoro profondamente mutato e non paragonabile a quello del secolo scorso o solo di qualche anno fa.
Il futuro del lavoro non passa dalla lotta di classe, classe ormai “andata in paradiso”, ma dalla partecipazione.
Occorre rafforzare la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli d’amministrazione delle Aziende, dare più potere alle rappresentanze sindacali aziendali, investire nella formazione continua nella sicurezza, vero strumento di tutela contro morti e infortuni sul lavoro, costruire meccanismi di reinserimento professionale per chi è colpito da crisi o cambiamenti tecnologici. Queste sono le norme da richiedere e da negoziare con gli interlocutori imprenditoriali in una logica concertativa.
È giusto commemorare Marco Biagi, ucciso dalle BR, ma è ancora più giusto commemorarlo seguendo le sue orme, che non conducevano allo scontro di classe.
Oggi, il vero problema non è la mancanza di lavoro, ma la carenza di competenze. I posti di lavoro ci sono, ma mancano le persone professionalmente adeguate. E in un’economia sempre più terziarizzata e tecnologica, questa sarà la sfida cruciale dei prossimi anni, per il sindacato e per i riformisti.
Sogno un’Italia dove sarà possibile, per la società civile e le sue organizzazioni, richiedere norme di legge quadro sul lavoro, attraverso referendum propositivi quale strumento vero di partecipazione dei corpi intermedi alla cosa pubblica.
Norme di legge quadro non invasive della sfera del diritto privato, norme che non pretendono di normare le relazioni tra corpi intermedi e il mondo del lavoro, come accade spesso, sin nei minimi particolari.