di Stefano Ceccanti
Intervento a un seminario del Pd di Latina del 29 maggio 2025
1-L’handicap iniziale: culture separate e minoritarie nei partiti di riferimento
Dobbiamo tenere conto di una difficoltà specifica iniziale dell’esperienza del Pd che condiziona anche oggi. Le culture politiche riformiste da cui esso deriva si erano formate in modo separato e in contenitori politici in cui esse erano strutturalmente minoritarie, anche se in alcuni momenti hanno potuto esercitare una certa egemonia interna a tali contenitori.
Soprattutto il primo elemento, la separazione, spiega molto delle difficoltà successive a capire chi siano, nell’ambito delle altre tradizioni, gli interlocutori più affini.
Ad esempio in una parte dell’area del cattolicesimo democratico vi fu negli anni Ottanta per ragioni tattiche un’eccessiva prevenzione verso il riformismo socialista (peraltro ricambiata) che si estendeva a catena verso l’area migliorista, in quanto vicina al Psi, preferendo un gioco di sponda tattico verso le componenti più tradizionaliste e massimaliste del Pci. Un insigne intellettuale cattolico ci fece un’aspra critica per aver invitato un intellettuale di area migliorista a un Congresso della Fuci.
Da qui anche alcune vicinanze e lontananze non sempre lineari dentro la storia del Pd.
2-Le sintesi tra principi e valori sono potenzialmente diverse a seconda se interiorizzano o meno una cultura liberale.
Una volta messe in comunicazione queste culture politiche esse possono produrre sintesi molto diverse tra principi e valori.
In particolare fa differenza se questa ricerca di sintesi avviene dentro una cornice liberale, di attenzione alla cultura dei mezzi, al limite della politica, oppure no.
Le culture politiche originarie avevano infatti forti elementi finalistici, prospettavano anche alternative di sistema (il comunismo, la nuova cristianità) che, ove separate da un’impostazione liberale, possono portare a fughe massimalistiche. In fondo in Italia persino la lotta armata ha presentato una sintesi tra uno schematismo ideologico terzinternazionalista e un certo tipo di cristianesimo utopico e massimalista.
L’esigenza di nuove sintesi ha portato in Francia solo a Jacques Delors, ma invece in Italia anche a Mara Cagol, come avvertiva un ex Presidente della Repubblica.
Da qui una particolare forza delle ricorrenti spinte massimaliste e identitarie, forza che sopravvive all’esaurimento della spinta propulsiva delle culture politiche di partenza ed anzi che sembra nutrirsene.
Va fatta comunque una precisazione; stiamo parlando di un partito a vocazione maggioritaria, strutturalmente molto pluralista, che copre uno spazio moto ampio dal centro alla sinistra. Quindi quando si denuncia il rischio di una deriva massimalista-identitaria non se ne vuole proporre una speculare in senso opposto, proponendo un partito fatto di soli riformisti doc.
3-Due test: politica internazionale e istituzioni
Due i punti dolenti soprattutto di questa fase politica.
La prima è la fuga utopico-massimalista sulla politica internazionale, che consiste nel separare la prima affermazione dell’articolo 11 (Il ripudio della guerra) dalla restante parte dell’articolo (la legittima difesa dei singoli Paesi e in un quadro multilaterale), quando invece l’impostazione corretta dovrebbe essere data dall’intero articolo 11 e da tutto ciò che è seguito all’articolo 11 (Nato, Ue, Onu). “Che il diritto sia forte, che la forza sia giusta” si legge all’entrata della Facoltà di Diritto di Lille. Quello che in questi anni hanno ripetuto i Presidenti Napolitano e Mattarella, che hanno proposto sintesi tra le tradizioni di provenienza tenendo conto di una visione liberale e multilaterale. Altrimenti dobbiamo sapere che di fronte a un diritto senza forza finisce per prevalere una forza senza diritto.
La seconda è l’esigenza di rimodellamento delle istituzioni che erano state pensate in una chiave armistiziale e di complesso del tiranno dentro le tensioni della Guerra Fredda, di cui è stata avviata la riforma sin dagli anni ’80, completandola coerentemente per Comuni e Regioni. Un completamento di cui la Tesi 1 dell’Ulivo aveva dato i parametri anche per il livello nazionale e su cui invece pende oggi una damnatio memoriae di tipo conservatore astorico, regredendo a visioni proporzionaliste tipiche di puntando solo a una logica minoritaria non si sente in grado di affrontare elezioni competitive e decidenti, quelle in cui, grazie a sistemi ben congegnati, il cittadino è arbitro anche del Governo.
Di fronte a proposte non convincenti della maggioranza questi mesi e questi anni hanno segnato una indubbia regressione culturale prima che politica delle opposizioni. Rinvio per un rilancio della parte migliore delle elaborazioni riformiste all’introduzione di Augusto Barbera all’edizione degli scritti di Roberto Ruffilli, appena uscita per Il Mulino.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.
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