Scheda a cura di Pietro Ichino
Contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23/2015 (cioè quello degli otto decreti attuativi del Jobs Act che riguarda i licenziamenti nelle aziende con più di 15 dipendenti) militano i motivi che seguono.
1-Il d.lgs. n. 23/2015 armonizza la nostra disciplina di questa materia con quella di tutti gli altri Paesi della UE, superando una anomalia esclusivamente italiana.
2-Il significato politico dell’iniziativa referendaria consiste invece essenzialmente nel rivendicare il ritorno al regime di job property precedente al 2012 (vecchio articolo 18 St.lav.), presentato come “tutela di un diritto fondamentale della persona”; ma i diritti fondamentali sono per definizione quelli che possono e devono essere riconosciuti indistintamente a tutte le persone, mentre il regime di job property può, per sua natura, essere riconosciuto soltanto ai core workers, con conseguente scarico di tutto il peso della flessibilità di cui il tessuto produttivo ha bisogno sugli altri, i periferal workers.
3-Il regime di job property è dunque per sua natura divisivo: presuppone una maggior dose di precarietà a carico della metà della forza-lavoro che della stabilità non può godere (i dipendenti delle aziende più piccole, i lavoratori a termine, i collaboratori autonomi continuativi, ecc.).
4-È vero che la parte del Jobs Act sulle politiche attive del lavoro (d.lgs. n. 150/2015) è stata smontata, giungendosi addirittura alla soppressione (dopo anni di paralisi) dell’ANPAL; ma è pur vero che del Jobs Act resta in vigore il d.lgs. n. 22/2015, che ha aumentato al 75% dell’ultima retribuzione il trattamento ordinario di disoccupazione, ne ha notevolmente ampliato la durata massima (a 24 mesi: erano 6 mesi prima del 2012!) e lo ha universalizzato estendendolo a tutti i lavoratori subordinati; ha inoltre introdotto un trattamento di disoccupazione anche per i collaboratori autonomi.
5-Del Jobs Act resta in vigore anche il d.lgs. n. 81/2015 (in particolare l’art. 2 ), che ha contribuito a ridurre incisivamente l’uso delle collaborazioni autonome finalizzato all’elusione del diritto del lavoro.
6-È un fatto che nell’ultimo decennio, da quando il Jobs Act è in vigore, non soltanto è aumentato costantemente il tasso generale di occupazione (raggiungendo il record assoluto dei 24 milioni), ma è anche aumentato costantemente il tasso di occupazione a tempo indeterminato, mentre l’occupazione a tempo determinato è rimasta sostanzialmente ferma (ed è oggi pari all’incirca alla media UE).
7-Detto questo, tutti concordiamo sulla necessità di un intervento che rimetta ordine nella disciplina dei licenziamenti, dopo un decennio di interventi legislativi e della Corte costituzionale che hanno variamente “picconato” il Jobs Act. Ma l’ipotetico successo del referendum porterebbe a un ritorno all’indietro, con ripristino dell’applicazione dell’articolo 18 St.lav. (nella versione Fornero) a tutti i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti, anche se assunti dopo il 7 marzo 2015.
Occorre invece a) battersi per il rilancio di un programma di rafforzamento delle politiche attive del lavoro che allinei il nostro Paese a quelli del centro e nord-Europa; b) battersi per un intervento legislativo che unifichi e semplifichi la disciplina della materia dei licenziamenti mantenendo la sanzione della reintegrazione soltanto per i licenziamenti dettati da motivo illegittimo (discriminazione, rappresaglia, ecc.), mentre la sanzione indennitaria – il cui limite massimo di 36 mensilità è oggi di gran lunga il più alto nel panorama europeo – deve applicarsi nei casi di (ritenuta dal giudice) insufficienza del motivo economico o disciplinare addotto dall’imprenditore, come in tutti gli altri Paesi dell’OCDE.
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino