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di Giovanni Cominelli

 

Quasi ogni giorno, pensosi intellettuali e giornalisti pensanti si interrogano sulle cause dell’attuale condizione dello spirito pubblico, ben descritta dal Rapporto Censis 2018 e leggibile in filigrana nel discorso di fine anno 2018 del Presidente della Repubblica.

Tra le cause privilegiate del degrado viene sempre indicato il sistema di istruzione, Università compresa. Sono decenni che arriva l’eco di questo lamento. Basterà ricordare, agli inizi dell’attuale decennio, gli Orientamenti pastorali della CEI, nei quali si denunciavano “il degrado” e la “situazione disperata” delle istituzioni civili preposte all’istruzione.

 

La ricorrente lamentazione sul degrado del “spirito pubblico” e delle istituzioni che lo dovrebbero formare

Ma già nell’aprile del 1983, con la pubblicazione del Rapporto americano A Nation at Risk – messo a punto dalla Commissione Gardner per conto del Presidente Reagan — si lanciava l’allarme sullo “sconsiderato e unilaterale disarmo educativo” degli Usa, ormai minacciati da vicino “dai concorrenti di tutto il mondo”. E anche in Italia si accese una passeggera fiammata di dibattito.

Riletto a oltre 35 anni di distanza, quel Rapporto parla dell’Italia 2019. Basterebbe sostituire alla parola “americani” la parola “italiani”. Analfabetismo funzionale, povertà educativa dei giovani rispetto ai loro genitori, frustrazione così intensa che minaccia di sopraffare la speranza, insegnanti impreparati e malpagati, il “minimum” di competenze tende a diventare il “maximum”, gli standard di istruzione si abbassano per tutti…

A rincarare la dose, arrivò nel 1987 il libro di Allan Bloom “The Closing of the American Mind”, dedicato alla chiusura della mente americana: al sapere, ai valori, alle differenze, ai fatti. Dunque, de nobis fabula narratur.

 

Le ragioni della mancata riforma del sistema scolastico

Perché l’opinione pubblica, le famiglie, i ragazzi, i docenti si sono finora opposti alla riforma del sistema educativo e perché i politici non hanno mai avuto la forza di portare a termine una riforma radicale del sistema educativo nazionale? Perché, conseguentemente, le riforme Berlinguer, Moratti, Renzi sono finite o dimezzate o nell’inconcludenza?

Una prima ragione è che il governo-istituzione è debolissimo nel nostro sistema politico-istituzionale. Il Parlamento funziona come una Camera (anzi due!) delle Corporazioni, mentre, tradizionalmente le Commissioni istruzione della Camera sono sempre state piene di insegnanti e di professori universitari. Così, l’unico potere veramente efficace ed immediato è quello di veto corporativo. Ne abbiamo scritto più volte.

La seconda ragione è storico-culturale, viene da lontano e continua a camminare. E’ l’ideologia giobertiana del primato morale e civile degli Italiani, che da Francesco De Sanctis a Giovanni Gentile ha fornito agli Italiani la coscienza di sé, ha informato la costruzione del sistema educativo nel nostro Paese e il giudizio su di esso. Detto in altre parole: il nostro sistema educativo è il migliore al mondo. Sì, ha carenze riconosciute di vario tipo – non include tutti, perdiamo un gran numero di ragazzi, l’insegnamento delle scienze è cenerentolo, gli insegnanti sono proletarizzati e frustrati – ma è migliorabile, a condizione che i fondamentali culturali e organizzativi rimangano invariati.

Ovviamente, dietro quella ideologia stanno idee molto consolidate sull’asse culturale-cognitivo, sui processi di apprendimento dei ragazzi, sull’assetto istituzionale e organizzativo del sistema. Esso si è riprodotto nel tempo. Ha fornito per oltre un secolo e mezzo le categorie di interpretazione del mondo a politici, giornalisti, magistrati, imprenditori, insegnanti, professori universitari, generali, carabinieri, poliziotti, vertici dell’Amministrazione statale.

L’avvento della Scuola media unica nel 1963 e le conseguenze a catena negli anni successivi sulla scuola superiore, sull’Università, sul personale docente e dirigente non ha generato un sistema educativo alternativo. Né per quanto concerne gli assi culturali né per quanto riguarda gli assetti organizzativi. Il sistema scolastico è disconnesso dal sistema paese.

 

L’invasione della Rete…

Tutto bene, dunque? Neanche un po’! Perché il sistema scolastico è sempre meno connesso con il sistema culturale, civile, economico e produttivo del Paese. Questa separazione attraversa la vita dei nostri ragazzi, che viene esistenzialmente divisa in due: quella scolastica e quella reale. La scuola è una rete di relazioni “a parte” tra pari, separata dalla vita cognitiva e emozionale reale del pomeriggio. Di qui i fenomeni già lamentati dagli americani qualche decennio fa.

 

…erode gli spazi della mediazione critica

Alla Rete, nella quale si sta riversando l’intero sapere umano, si accede direttamente, senza la mediazione critica e intersoggettivo-relazionale della scuola, senza filtri. Al loro posto, troviamo le “filter bubbles” – “ecosistemi informativi personali, costruiti dagli algoritmi che ci isolano da ogni cosa che è conflittuale rispetto alle nostre convinzioni” (F. Nicodemo) — e le “eco chambers”, “ spazi autoreferenziali costruiti dai social media”, in cui troviamo comodo rifugiarci, perché lì ci danno sempre ragione con un semplice “mi piace”.

E’ evidente che le basi della democrazia liberale, fondata sulla discussione, sulla relazione cognitiva e emotiva con l’altro, vengono corrose. La relazionalità, la socievolezza, la presenza dell’altro sono ridotte a rumore di fondo. La società diventa insocievole. Non basta certo istituire una nuova inutile “materia di cittadinanza”, quando l’intero sistema educativo ne erode le basi.

 

Nuova scuola disperatamente cercasi

Serve urgentemente un’altra scuola. E’ tanto questione di assi culturali quanto e soprattutto di metodi e organizzazione dell’apprendimento/insegnamento. Sul nuovo albero della conoscenza – le competenze-chiave – ha già dato indicazioni l’Unione europea: Lingua-Lingue, Storia, Matematica, Scienze. Non riprendo qui il tema.

Sull’organizzazione della didattica, l’invasione del Presente attraverso la Rete ci obbliga ad approcci rovesciati. Prendiamo la didattica della Storia! Non può che diventare geo-storia e geopolitica del mondo presente, a partire dal quale lungo gli anni si lanciano sonde cognitive sempre più lunghe verso la Storia profonda.

Forse i nostri ragazzi capiranno di più il mondo che sta arrivando. Partire dal presente per andare indietro alla lotta per le investiture, all’Egira, alle guerre puniche o a quelle del Peloponneso. Per capire il presente e la lunga durata che lo ho portato fin qui e che ci coinvolge.

E invece, il nostro sistema educativo continua a seguire lo schema pedagogico-didattico hegeliano della Fenomenologia dello spirito, che parte dagli stadi più poveri della coscienza per pervenire a quelli più alti. Ma questa non può funzionare come legge dell’apprendimento. Non impone di partire da Adamo e Eva. Anche perché l’osservazione empirica ci conferma che i programmi realmente svolti non arrivano quasi mai al Presente.

 

Meno materie e più laboratori, per cucire la storia del mondo alla dimensione esistenziale individuale

Ma la riforma più importante è quella dell’organizzazione dei tempi degli apprendimenti fino ad ora scanditi dai tempi parcellizzati dell’insegnamento. Servono non una decina e più di materie-cattedre, ma pochi Laboratorium, almeno uno per ogni competenza-chiave (ma bisognerebbe aggiungere Economia!) al fine di far acquisire i saperi fondamentali, conciliandolo con necessità della personalizzazione dei percorsi.

La partizione tayloristica dell’insegnamento/apprendimento è la maggior responsabile della mancata personalizzazione, del rifiuto annoiato, della fuga, perché non consente di compiere il lavoro delicato di cucitura tra la dimensione esistenziale e quella della storia del mondo.

E perciò la scuola così com’è oggi genera ignoranza, esclusione, alienazione. La stessa che il metodo Taylor generava nelle fabbriche del ‘900. Ammoniva A Nation at Risk nel 1985: “La storia non è benevola con i pigri”. La storia non si annuncia benevola per l’Italia.

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