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Pd-5s: ‘Repubblica’ spinge per l’accordo, ma…

Marco Campione venerdì 3 Maggio 2019
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di Marco Campione

 

Folli ha ragione: solo se il “Nuovo PD” si rafforza può nascere il governo con i 5S

 

Stefano Folli su la Repubblica del primo giorno di maggio sostiene una tesi evidente, ma fino ad oggi poco evidenziata. Repubblica stessa titola in modo per una volta neutro il suo editoriale. Forse per paura delle conseguenze sui comportamenti degli elettori che vedono come fumo negli occhi un governo 5S-PD, per il quale il Fondatore (e non solo) spinge palesemente. Unica possibilità per quel governo, questa la tesi di Folli, è che il 26 maggio il PD si rafforzi e/o i 5S tengano. Un altro esito elettorale “renderebbe poco credibile un patto tra sconfitti”. Per renderlo possibile, conclude, “almeno uno dei contraenti dovrebbe dimostrare di avere il vento elettorale in poppa”.

Più probabili, in caso di implosione dell’attuale maggioranza, le elezioni anticipate, dice Folli, e io nel mio piccolo concordo con la sua analisi. Anche perché per fare l’alleanza con i pentastellati Zingaretti ha bisogno di passare dal voto politico. Per due ragioni:

1) perché così potrebbe fare piazza pulita di molti “renziani” nei gruppi parlamentari (si salverebbero solo i big, che si contano sulle dita di una mano, e quelli con un radicamento proprio);

2) perché dopo una sconfitta (questo sarebbe il probabile esito) diventerebbe più facile far passare la linea dell’alleanza “per il bene del paese”. Certo, il rischio di un tale azzardo è quello di un governo Salvini (con Meloni e Toti a fare da ancelle), ma in quel caso, Zingaretti raggiungerebbe per lo meno il primo scopo, quello del repulisti.

 

Il Pd messo all’angolo

Più probabili, anche se non si sa mai, le elezioni anticipate, ma è certo che chi vuole votare PD alle europee ed è contrario al governo con i 5S si trova in un brutto cul de sac. Il paradosso è che il PD nell’angolo ce lo ha messo proprio la strategia del “nuovo PD” (abbiamo scoperto che ai nuovi titolari della ditta piace definirsi così). Il perché ce lo dice indirettamente lo stesso Folli, in un inciso. “In fondo le due sigle sono rivali e cercano il consenso presso categorie sociali abbastanza contigue”. In termini più prosaici diremmo che PD e 5S pescano nello stesso elettorato.

Ma non era scontato fosse così: il PD del 2014 pescava in un elettorato in parte diverso, quello del Sì al referendum 2016 ancora di più, perfino quello del 2018 era su strategie elettorali molto diverse. Gli elettori alle primarie del PD hanno legittimamente scelto a stragrande maggioranza di cambiare radicalmente strategia. Zingaretti ha però deciso di interpretare un mandato così forte come la richiesta di percorrere una strada già battuta, che ha portato alla “non vittoria” del 2013 (e allora il centrodestra era indebolito dal disastro dell’ultimo governo Berlusconi e dagli scandali che avevano azzoppato la Lega). Zingaretti la sta interpretando scegliendo di riportare il PD nel XX Secolo (per dirla con l’immagine di Cominelli) e rifugiarsi nella comfort zone del partito della spesa: guardate le cinque proposte rilanciate da Zingaretti al Corriere il 29 aprile e provate a fare un conto di quanto costerebbero.

Questa scelta difficilmente potrà impensierire Salvini, anche perché lo ha posizionato in un campo molto più piccolo e già presidiato dal partito di Di Maio, con il quale ha scelto di competere. Zingaretti può ovviamente vincere la battaglia per l’egemonia in quel campo (e me lo auguro: ci eviteremmo la prevalenza del grillino, parafrasando i maestri Fruttero e Lucentini), ma resta un campo molto più ristretto di quello per conquistare il quale era nato il PD. Uscirne non sarà tanto facile, almeno nel breve periodo, ma chi è causa del suo mal…

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