LibertàEguale

Testimonianza su Vittorio Bachelet

Vorrei portare come mio contributo a questo Convegno un semplice ricordo personale.

Mi sono laureato con Vittorio Bachelet nel luglio 1960 a Pavia, dove Vittorio veniva regolarmente per i “canonici” tre giorni a settimana. In quella splendida Università, in una Facoltà di Giurisprudenza fitta di grandi nomi -molti poi subiranno l’attrazione della grande città e della professione e si trasferiranno a Milano- gli studenti erano pochi e i “collegiali” ancor meno: l’università di massa era ancora lontana. Alle lezioni di diritto amministrativo, al quart’anno, eravamo talora sono in due, Antonio Padoa Schioppa ed io. E solo in due eravamo talora alle lezioni del Storia del diritto italiano, tenute dal professor Vismara. Antonio si laureò successivamente con lo stesso Vismara e divenne uno dei massimi storici del diritto italiano ed europeo, mentre io mi laureai con Vittorio. Ricordo come insieme a Vittorio, alcune volte, verso la fine del corso e in assenza di altri studenti, invece di restare nell’aula, si facessero due passi nei bei cortili dell’Universita o anche lunghe passeggiate nei viali del Lungoticino. Nel frattempo mi aveva già dato la tesi su uno degli argomenti che sono stati illustrati oggi da Giuliano Amato, sulle figure consensuali nell’ambito del diritto pubblico. Una tesi che, nei tre anni successivi stavo trasformando nella dissertazione di libera docenza. Naturalmente, come allora avveniva, si doveva sciacquare i nostri panni italiani in qualche fiume tedesco, nel caso mio e di Antonio il fiumiciattolo che bagna la cittadina di Muenster, in Vestfalia, dove ebbi come tutore un famoso professore di diritto amministrativo, Hans-Julius Wolff. Essendo poi stato chiamato ad altra Università, Vittorio, lasciando Pavia, mi affidò alle cure del Prof. Biscaretti di Ruffia, che insegnava diritto costituzionale, e sotto la sua assistenza, mentre preparavo “il libro” scrissi e pubblicai due o tre lavori in materie al confine tra diritto costituzionale e amministrativo. Sembrava quindi che ormai fossi avviato ad una normale carriera accademica nell’ambito del diritto amministrativo.

Ma il caso, le circostanze sociali, le predisposizioni individuali vollero diversamente. E’ dovuto al caso l’incontro con Paolo Sylos Labini, persona di fascino travolgente, la cui cultura laica era assai più vicina alla mia di quella di Vittorio. Allora Sylos -siamo nel 1962 e io ero appena tornato dalla Germania- insegnava a Bologna e teneva un corso alla SPISA, una scuola interdisciplinare di Scienze dell’Amministrazione, dove mi lasciavano proseguire i miei studi di diritto e chiudevano un occhio sui miei frequenti ritorni in Germania, purché alla fine, per ogni materia del corso, scrivessi un lungo saggio. Quello che scrissi in economia -in realtà sul Methodenstreit nelle scienze sociali, a cavallo del ‘900- piacque molto a Sylos, che mi propose di presentarlo per una borsa di studio in economia che allora Il Mediocredito Centrale aveva bandito: se l’avessi vinta, se l’università di Cambridge mi avesse accettato, se avessi superato bene gli esami finali, mi sarei trasformato da giurista in economista e egli si sarebbe adoperato per la mia successiva carriera. Non era quello che volevo?

Devo fare un passo indietro. Gli studi giuridici mi piacevano molto ma, negli ultimi anni dell’Università mi ero avvicinato a circoli politici di sinistra, quelli che poi avrebbero dato vita a riviste come i Quaderni rossi e i Quaderni piacentini, e mi ero tuffato nello studio, disordinato ma intenso, delle opere di Marx. Anzi, al ritorno dalla Germania, ero diventato un piccolo esperto in materia: scrivevo articoli di economia e venivo spedito in diversi luoghi a spiegare il significato recondito dei Grundrisse, allora non ancora tradotti. “Credete in Marx e sarete… Salvati”, scherzava su di me un caro amico di recente scomparso. Che cos’era il diritto a confronto dell’economia, come confrontare un’esegesi normativa quasi talmudica con la scienza che consente non solo di capire il mondo, ma di trasformarlo? Oggi può sembrare curiosa una tale ingenuità politica e metodologica, ma allora era piuttosto diffusa ed io ne ero vittima. Fatto sta che mi venni a trovare in una situazione -se mi si passa il confronto- simile a quella del giovane Hans Castorp diviso tra Naphta e Settembrini nella Montagna Magica. Con la differenza che Vittorio non combatteva per la mia anima: gli dispiaceva che buttassi al macero tanti anni di studi e una Libera docenza che poteva essere imminente ma, in un colloquio a casa sua che ancora ricordo benissimo, addirittura mi rincuorò: qualsiasi scelta avessi fatto, le cose sarebbero andate bene. Quelli, oltretutto, erano tempi in cui tutto sembrava possibile, in cui un giovane -operaio, impiegato, intellettuale- abbandonava un lavoro e ne trovava subito un altro. Ed io, oltretutto, avevo trovato un maestro straordinario ed esigente che mi avrebbe assistito nei primi passi della nuova carriera. Quantum mutatum ab illo, in peggio, se si pensa alle scelte che oggi sono costretti a fare i giovani studiosi: chi può dar loro torto se non vogliono buttare niente, se cercano di valorizzare qualsiasi brandello di esperienza avuta in precedenza, anche se la sentono ormai lontana e vorrebbero fare altre cose? Come non capire i motivi del conformismo dilagante, della preoccupazione ossessiva per la carriera?

Quantum mutatum ab illo anche sul piano personale. Perché Vittorio in realtà l’ho conosciuto solo dopo e molto dopo la sua morte, quando ho cominciato a capire l’universo culturale e ideale del cattolicesimo democratico, l’universo da cui Vittorio proveniva. E questo è avvenuto sia nell’ambito dell’Associazione Il Mulino, dove ho conosciuto, di quell’universo, straordinari rappresentanti, primo fra tutti Pietro Scoppola. E quando, nell’attività politica per l’Ulivo e per il partito democratico, mi sono trovato a lavorare gomito a gomito con loro, cosa che continuo a fare, trovando spesso consonanze maggiori che con i compagni della sinistra laica dalla quale provengo. E quanto vorrei aver conosciuto Vittorio sul piano personale, della confidenza e dell’amicizia, perché vari indizi mi inducono a pensare che come carattere e atteggiamenti politici di base io sono più simile a Vittorio che all’altro mio grande maestro, Paolo. Mediazione, Moderazione (ma con la M maiuscila), percezione acuta che quanto si è raggiunto lo si può anche perdere, raziocinio applicato alla società così com’è e non come si vorrebbe che fosse, moralità e non moralismo, doveri come titolo per i diritti: non erano questi -lo domando a chi l’ha conosciuto bene- tutti tratti del carattere di Vittorio e del contributo che ha dato alla società e alla politica?